venerdì 30 novembre 2012

marco iacampo - amore in ogni dove (2012)

il percorso artistico del cantautore veneto marco iacampo è fatto di tappe diverse e in continua evoluzione. l’ex leader degli elle, già si era già messo in evidenza con i suoi primi dischi solisti, cantati in inglese, con lo pseudonimo di goodmorningboy. nel novembre 2012 pubblica valetudo, il suo secondo disco in italiano. vale tudo è un’arte marziale di origine brasiliana, letteralmente “vale tutto". una disciplina quasi priva di regole, in cui valgono tutti i colpi. 
“quando ho visto le immagini dei combattimenti su youtube - spiega marco -mi hanno trasmesso subito un senso di forte umanità. il suono della parola, bellissimo, è un suono del mondo. poi, grazie al mio violoncellista/filosofo,  ho scoperto che valetudoin una parola sola, sta ad indicare anche la forma fisica in latino, suono quindi che appartiene a tempi e idiomi molto diversi. ho chiamato con questo nome, prima una mia mostra personale di arti figurative, poi un brano strumentale che mi sembrava racchiudere in sé musiche da tutto il mondo, poi il disco.”
l'idea del video di “amore in ogni dove” è di marco iacampo e arianna biasiolo, sua compagna, che ne cura anche la regia. ci mostra la visione di una città di notte le luci delle case accese (un mix tra mestre, vancouver e singapore) e lo sguardo di un'occhio indagatore che scruta le dinamiche di solitudini e convivenze…
amore in ogni dove 

mi sto svegliando lentamente e sento

che la mia rosa vuole tutto si
stiam camminando fuori da ogni senso
e un senso forse comincia da qui
e so come
è amore in ogni dove
nei sogni è l’altra parte della notte
è li dove ti nascondevi tu
nei sogni so cambiare mille rotte
ma aspetto che ci capiti di più
e so come
è amore in ogni dove
se l’universo giace
sul tempo che va
il mio universo tace
fino all’ora che sa
e so come
è amore in ogni dove



lunedì 26 novembre 2012

roberto angelini - cenere (2012)

roberto angelini è cresciuto con la passione per il jazz: si cimenta spesso in performance live nelle quali mette in mostra raffinate attitudini swing. è un egregio polistrumentista: dalle sei corde - suona con particolare maestria la chitarra acustica - ai tasti del pianoforte fino alle pelli della batteria.
è uscito da poche settimane il suo quarto disco "phineas gage", dedicato a un operaio statunitense che sopravvisse miracolosamente ad un incidente sul lavoro (un’asta di metallo gli trapassò il cranio) diventando un caso di studio per la neurologia: gage riportò infatti gravi danni al cervello che provocarono in lui un forte cambio di personalità, comunicando 'senza filtri' e con modi poco convenzionali.
"cenere" è il primo singolo estratto, che qui apprezziamo nell'esecuzione live all'angelo mai di roma, con le immagini curate da simone cecchetti, dove angelini si destreggia con chitarra acustica, lapsteel e elettronica varia.
come indica il titolo, roberto, al momento, si sente come cenere, bruciato dentro, ma appena il vento soffierà si rimescolerà con la terra per tornare a rinascere come l'araba fenice. emily, carola, giulia, vale, silvia… sono i nomi e le storie delle ragazze con cui ha avuto un rapporto. qualcuna sa che è finito, qualcuna non se ne è ancora accorta, qualcuna lo odia, qualcuna cambia strada. tutte le donne che sono entrate nella sua vita sono state solo parte di una scena il cui sipario è già stato chiuso. il cantautore, troppo innamorato dell'idea dell'amore, divorato da questo desiderio di vivere ed essere amato, non può fare a meno di sentirsi in colpa perchè sa che tutto questo lo porterà ad essere solo, ridurrà in cenere lui e chi gli sta accanto, non ci saranno superstiti...

 cenere
 emily lo sa
che non sarà mai più come prima
carola no
lei ci crede ancora
giulia è come me
lei vive alla giornata
vale invece no, invece no
non me l’ha mai perdonata
che cuore io non ho più
vedo solamente i titoli di coda
e amore tu
sei solo parte di una scena
che è stata tagliata
chi spegnerà il fuoco che dilaga in me
non troverà nessuno, nessun superstite
chi spegnerà il fuoco che dilaga in me
non troverà nient’altro che, che cenere
silvia mi odia
glielo leggo negli occhi
quando la incontro per strada
fa di tutto per non salutarmi
che cuore io non ho più
vedo solamente i titoli di coda
e amore tu
sei solo parte di una scena
che è stata tagliata
chi spegnerà il fuoco che dilaga in me
non troverà nessuno, nessun superstite
chi spegnerà il fuoco che dilaga in me
non troverà nient’altro che, che cenere
brucia ancora
brucia ancora
brucia ancora
brucia ancora

giovedì 22 novembre 2012

sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!


Non serve dirvi che le cose vanno male, tutti quanti sanno che vanno male. Abbiamo una crisi. Molti non hanno un lavoro, e chi ce l'ha vive con la paura di perderlo. Il potere d'acquisto del dollaro è zero. Le banche stanno fallendo, i negozianti hanno il fucile nascosto sotto il banco, i teppisti scorrazzano per le strade e non c'è nessuno che sappia cosa fare e non se ne vede la fine.
Sappiamo che l'aria ormai è irrespirabile e che il nostro cibo è immangiabile. Stiamo seduti a guardare la TV mentre il nostro telecronista locale ci dice che oggi ci sono stati quindici omicidi e sessantatré reati di violenza come se tutto questo fosse normale, sappiamo che le cose vanno male, più che male!
È la follia! È come se tutto dovunque fosse impazzito così che noi non usciamo più. Ce ne stiamo in casa e lentamente il mondo in cui viviamo diventa più piccolo e diciamo soltanto: "Almeno lasciateci tranquilli nei nostri salotti per piacere! Lasciatemi il mio tostapane, la mia TV, la mia vecchia bicicletta e io non dirò niente ma... ma lasciatemi tranquillo!".
Beh!, io non vi lascerò tranquilli. Io voglio che voi vi incazziate. Non voglio che protestiate, non voglio che vi ribelliate, non voglio che scriviate al vostro senatore, perché non saprei cosa dirvi di scrivere: io non so cosa fare per combattere la crisi e l'inflazione e i russi e la violenza per le strade. Io so soltanto che prima dovete incazzarvi. Dovete dire: "Sono un essere umano, porca puttana! La mia vita ha un valore!".
Quindi io voglio che ora voi vi alziate. Voglio che tutti voi vi alziate dalle vostre sedie. Voglio che vi alziate proprio adesso, che andiate alla finestra e l'apriate e vi affacciate tutti ed urliate: "Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!".
Voglio che vi alziate in questo istante. Alzatevi, andate alla finestra, apritela, mettete fuori la testa e urlate: "Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!" Le cose devono cambiare, ma prima vi dovete incazzare. Dovete dire: "Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!" Allora penseremo a cosa fare per combattere la crisi e l'inflazione e la crisi energetica, ma Cristo, alzatevi dalle vostre sedie, andate alla finestra, mettete fuori la testa e ditelo, gridatelo: "Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!".

[Quinto potere di Sidney Lumet, 1976]
*
Peter Finch nella parte di Howard Beale.

domenica 18 novembre 2012

dimartino - bella figlia dell'amore (2012)



antonio dimartino ci stupisce coniugando con grande naturalezza la tradizione dell'opera lirica al presente indie. “bella figlia dell’amore” tratto dall'opera in tre atti "rigoletto"(1851), basato sulla commedia “il re si diverte” di victor hugo, composta da giuseppe verdi (librettista francesco maria piave) 

atto terzo, fine della prima scena, canta il duca di mantova:

bella figlia dell'amore,
schiavo son de' vezzi tuoi;
con un detto, un detto sol
tu puoi le mie pene,
le mie pene consolar.

vieni e senti del mio core
il frequente palpitar,
con un detto, un detto sol
tu puoi le mie pene,
le mie pene consolar.

tutto questo è successo in una performance unica il 05.10.12 al teatro sanvitale di fontanellato (pr).

grazie a noelia per la condivisione.

venerdì 16 novembre 2012

Quintorigo plays Hendrix - il Capitano Cook incontra Valentino Bianchi

Quintorigo sono una gloriosa formazione con tre lustri di storia alle spalle, caratterizzata da un approccio sempre molto originale con la musica, sia per i generi che ha frequentato, sia per l’organico davvero atipico. Si approccia ora ad uno dei maggiori innovatori della chitarra rock - Jimi Hendrix (senza peraltro utilizzare chitarre né su disco, né dal vivo). Ho incontrato Valentino Bianchi in una calda serata milanese, per una bella chiaccherata nei camerini del carroponte...
I Quintorigo nascono nel 1996 ed hanno subito incuriosito per la particolarità degli strumenti utilizzati - violino, violoncello, contrabbasso, sassofoni e voce: com’è nata l’idea di una formazione così originale?
Ci siamo trovati, siamo tutti amici e compagni di conservatorio. Non è stato deciso a tavolino l’organico della band. Abbiamo cominciato con questi strumenti atipici, ed una formazione “handicappata” rispetto ad una rock band, ad arrangiare qualche brano rock storico dei Beatles e di David Bowie e ci siamo resi conto che questo gap poteva in realtà essere qualcosa di originale. Era una sfida che ci obbligava a lavorare molto sugli arrangiamenti dal punto di vista ritmico e armonico e alla fine questo è diventato il punto di forza della band che non ha mai modificato il proprio organico. Pur avendo cambiato diversi vocalist, siamo sempre rimasti noi quattro a far funzionare i pezzi e poi a scriverne di nostri.

Avete tutti una formazione classica e in questi 16 anni di attività avete seguito diverse direzioni: dalle partecipazioni a Sanremo (sempre con pezzi non sanremesi) ai festival jazz con il progetto dedicato alle musiche di Charles Mingus. Dove avete trovato maggiori soddisfazioni?
Le soddisfazioni le abbiamo vissute quotidianamente, come le insoddisfazioni, le piccole frustrazioni e le amarezze. Se dovessi dire qual’è stato il momento più appagante di questi tre lustri di storia sicuramente direi il lavoro su Mingus. Entrare nel mondo del jazz importante e ricevere inaspettatamente un premio, poi fare un tour calcando il palco con dei mostri sacri come Maria Pia De Vito, Antonello Salis, Enrico Rava, etc. per noi è stata un po’ un’avventura.
Però grandi emozioni le abbiamo vissute spesso, fin dalle origini, quando ci esibivamo nei piccoli pub della Romagna e, da un momento all’altro, siamo entrati nella ribalta luccicante e dorata di Sanremo. È stata un’esperienza, con i suoi aspetti negativi, altamente formativa e importante per noi. Momenti belli e brutti ci sono stati sempre, e ci sono tuttora, anche questa sera. Viviamo dei palchi emozionanti, soprattutto quando proponiamo qualcosa di nuovo, poi, piano piano, a volte ci si adagia. Per questo abbiamo bisogno di sfornare sempre cose nuove,di pensare a cosa faremo il prossimo anno. Siamo vulcanici e iperattivi e questo significa essere ancora giovani, nonostante l’età anagrafica.

In quasi tutti i vostri dischi ci sono dei pezzi (soprattutto rock) rielaborati nello stile quintorigo. Ricordo highway star, heroes, clap hands, redemption song, invisible sun… Come decidete quali pezzi inserire e perché avete sempre avuto questo vezzo di cimentarvi con questi mostri sacri?
Perché esistono i classici e perché è giusto “mettersi a dialogare con loro” come diceva Petrarca. Nel terzo millennio il musicista, secondo me, come minimo deve avere la consapevolezza del proprio passato. Non può prescindere da 50-100 anni di musica, deve conoscere Bach, Bob Marley, Stravinsky, Charlie Parker, Mingus ma anche Beethoven…. Dopodiché essere creativi con tutto questo illustre passato è molto difficile. Forse un approccio un pochino più facile è prendere i classici e reinterpretarli magari contaminando. La filosofia di lavoro dei Quintorigo è proprio nata così, all’insegna della contaminazione di un patrimonio immenso e bellissimo che c’è alle nostre spalle ed abbiamo studiato. Forse modernità ed originalità, veramente difficili da trovare oggi, consistono proprio nel rielaborare un passato meraviglioso. I Quintorigo nascono da un atteggiamento di grande umiltà: prendere ad esempio Mozart e fonderlo con Jimi Hendrix o suonare un brano di Hendrix ripescando un preludio di Bach, “ficcandocelo dentro” perché magari ci sta per giro armonico, senza dimenticare però le caratteristiche che devono essere insite in uno spettacolo: potenza del suono ed espressione di sincerità, dell’essere anche sanguigni e veri sul palco. Non facciamo il quartetto d’archi che reinterpreta Hendrix in punta di arco. Noi vogliamo anche ripescare il messaggio ideologico dell’artista che,in questo caso, era appunto rivoluzionario, distruttivo, potente. Abbiamo cercato di farlo con Hendrix ma anche con Mingus. Ripensandoci, tutto l’approccio nostro alle cover è sempre stato storicizzato, studiando anche le implicazioni sociologiche,gli aspetti ideologici e psicologici dell’artista.

Qual è la sfida più grossa nell’interpretare dei brani storici e metterci del proprio?
La sfida più grossa è sempre in relazione alla particolare natura del nostro ensemble che manca di motore ritmico e di uno strumento armonico. La sfida è sempre molto tecnica: dobbiamo imprimere una pulsione ritmica senza qualcuno con le bacchette in mano e dare un senso di pienezza armonica senza un pianoforte e una chitarra. Senza nulla togliere a Hendrix, che suona bene anche con due accordi e una chitarra, il lavoro su Mingus ad esempio è stato un lavoro di riduzione e di sublimazione, perché le sue composizioni sono mastodontiche. Mentre per Hendrix abbiamo dovuto arricchire ed ampliare le sue armonie. La sfida in definitiva è sempre imprimere il tiro ritmico ad una canzone senza batteria, senza chitarra elettrica, senza basso elettrico e senza un pianoforte.

Vi ho visto dal vivo diverse volte e la formazione è sempre stata la stessa per 4/5. Alla voce invece ho avuto il piacere di apprezzare tanti splendidi vocalists. La sensazione è che lo strumento voce, che agli inizi era molto importante, pur utilizzando degli ottimi professionisti, si sia progressivamente ridimensionato…
Noi viviamo nel paese del bel canto quindi, per ragioni storiche culturali e antropologiche, la voce è diventata lo strumento preponderante ma, in realtà, nasce come strumento musicale. I primi nostri esperimenti erano proprio volti a questa ricerca: integrare la voce in un ensemble di strumenti musicali, facendo in modo che contribuisse all’arrangiamento, che fornisse una pulsione ritmica, un arricchimento armonico e cantasse le melodie. Nel tempo ci siamo abituati ad essere identificati con un determinato tipo di cantante, tra l’altro molto dotato e talentuoso. Con lui abbiamo scritto l’inizio della nostra storia, quindi tutto il nostro rispetto a John (De Leo). Quando, per una serie di motivi, ci siamo trovati senza di lui, abbiamo rielaborato l’idea di band con voce. Una band può anche esistere senza voce. Spesso i cantanti sono affetti da complessi psicologici di megalomania, egocentrismo, sopraffazione del prossimo… primedonne anche quando sono uomini. A questo punto della nostra storia, senza voler dimostrare niente, abbiamo pensato di ricorrere a voci diverse a seconda del progetto che stiamo approcciando. Se suoniamo un progetto su Mingus ci può essere un ospite cantante di jazz. Abbiamo scelto ed avuto la fortuna di avere prima Luisa Cottifogli, poi forse la migliore in assoluto, Maria Pia De Vito, con la quale ancora collaboriamo. Nel caso di un disco di inediti abbiamo cercato un ragazzo di Roma molto creativo: Luca (Sapio) spostandoci in una dimensione più contaminata tra il soul e il grounge. Per il progetto su Hendrix abbiamo cercato una voce che gli si avvicinasse anche come approccio culturale e,avendo trovato Moris (Pradella), siamo contentissimi. In definitiva i Quintorigo sono quattro musicisti ed hanno come ospiti cantanti diversi, anche illustri, che sicuramente li arricchiscono. In Italia legando molto l’immagine della band a quella del cantante solista purtroppo, a livello mediatico, è difficile farlo capire.

Ho la sensazione che non amate molto internet. Non avete più un sito ufficiale, la vostra pagina su wikipedìa è piuttosto povera e non siete molto attivi sui social network. pensate che il vostro pubblico sia più interessato alle cose concrete ed abbia poco tempo da dedicare a questi strumenti?
Facciamo ammenda per questa nostra pigrizia nei confronti del canale più importante in assoluto di veicolazione ed autopromozione che è proprio internet. Ogni volta ci proponiamo di svecchiare, aggiornare, però, in questo senso, siamo più artisti che promotori di noi stessi. Essendo ragazzi del secolo scorso a volte non riusciamo a ragionare con le logiche attuali, anche se siamo convinti che si dovrebbe farlo.

Il 27 novembre Jimi Hendrix avrebbe compiuto 70 anni. È una ricorrenza significativa ma non credo sia l’unico motivo per questo vostro nuovo progetto. com’è nata l’idea e cosa rappresenta per voi?
Purple Haze, insieme ad un paio di brani dei Beatles è la prima cover che ci siamo messi a suonare. Abbiamo iniziato con quella perche è un brano semplice ed efficace, che avevano già arrangiato i Kronos Quartet, uno dei nostri riferimenti musical. Sono passati tantissimi anni e noi abbiamo continuato a suonarla con ogni cantante, anche donna, e in versione strumentale. Insomma è un po’ il leitmotiv della nostra storia. Il progetto Hendrix in realtà era già stato ipotizzato anni fa, siamo sempre stati attratti tutti da questo personaggio ed ora finalmente possiamo rendergli questo tributo. Volevamo elaborare un disco ed uno spettacolo “teatrale” su un gigante musicale del secolo scorso che, in soli tre-quatttro anni di carriera, ha lasciato un segno indelebile, rivoluzionando il modo di suonare la chitarra. La sua musica è semplice rispetto a tanti altri compositori, ha una matrice forte di blues che noi cerchiamo di far sentire nei nostri spettacoli, creandoci sopra un suo linguaggio, semplice ma felice. Un ragazzino che ha cambiato la storia della musica e forse, inconsapevolmente, quando ha suonato l’inno americano a Woodstock, è diventato la colonna sonora di un’America, meravigliosa e putrida al tempo stesso, contribuendo alla storia e alla cultura della propria nazione. Quando uno pensa alla guerra del Vietnam vede Hendrix che suona l’inno americano, prima ancora di pensare a Kubrick, a Platoon o ad Apocalipse Now. Sono messaggi fortissimi ed attualissimi che anche un pubblico di teenager può ripescare ed assimilare attraverso la musica.

Nel disco ci sono diversi brani in cui canta Eric Mingus, non proprio l’ultimo arrivato. Immagino che il contatto si sia sviluppato a seguito del progetto sulle musiche di suo padre…
Abbiamo cercato un link tra questi due lavori che sono complementari e sequenziali. Mingus e Hendrix sono due personaggi non più di tanto distanti. Hendrix era adorato da alcuni colossi del jazz, ad esempio Miles Davis. Ci siamo resi conto che il figlio di Mingus è un grande musicista ed un cantante bravissimo, soprattutto un bluesman che a volte canta anche Hendrix. L’abbiamo contattato via mail, da musicista a musicista, mandandogli il lavoro che abbiamo fatto sul padre. A lui è piaciuto tantissimo e si è dichiarato incondizionatamente disponibile a collaborare con noi a titolo gratuito, nella speranza di riuscire a fare qualcosa dal vivo. Da questo approccio sono nati 5 brani del disco, cioè quasi metà del cd l’ha cantato Eric sentendoci solo via skype e via mail. E’ stato molto bello ed appagante conoscere questa persona e trovarla così ben disposta, nel nome del padre, ma anche nel nome del blues e della vera musica.

Non conoscevo Moris Pradella ma, da ciò che ho sentito ha una splendida voce. Dove lo avete scovato?
Come spesso accade, tramite amicizie comuni. Il nostro fonico conosceva questo cantante di Mantova che aveva già fatto cose relativamente importanti. Ci è piaciuto, l’abbiamo invitato dalle nostre parti prima di tutto a mangiare e bere, come da tradizione romagnola, per fare amicizia. Poi abbiamo preso gli strumenti e provato a fare qualcosa. Da lì con massima serenità e tranquillità è nata una collaborazione che ci piace molto anche a livello umano. Si è studiato i brani, facendoci risparmiare tempo e tutto sta funzionando a gonfie vele. E’ un musicista colto, con alle spalle 8 anni di pianoforte, 5 anni di composizione e suona benissimo la chitarra. Ha preso questo incarico con grande umiltà e professionalità, ma in lui c’è anche l’aspetto ludico e gioviale del musicista unito ad una grande presenza scenica. L’ultima prova a cui l’abbiamo sottoposto questa estate è stata imparare il repertorio dei Quintorigo in pochissimi giorni per una serata in cui Luca Sapio aveva altri impegni. Moris è riuscito ad imparare una decina di brani, anche molto ostici, solo con una prova, come li conoscesse da una vita. E’ davvero un elemento che ci vogliamo tenere stretto…

Cosa c’è nel futuro dei quintorigo?
Il 27 novembre ci sarà finalmente la pubblicazione di questo disco dopo una lunga attesa in seguito ad una gestione molto restrittiva del nulla osta che doveva arrivare da parte della fondazione che fa capo alla sorella ed al cugino di Hendrix. Tra poco partiremo quindi con la promozione del disco, dopodiché inizieremo a scrivere qualche cosa di inedito e ci cimenteremo magari anche con Moris. Abbiamo comunque altre idee: ad esempio stiamo lavorando alle musiche di “Pierino e il Lupo”, che abbiamo già eseguito con Ivano Marescotti l’anno scorso. Stiamo cercando l’approccio con altri attori per esplorare questa dimensione più teatrale e contemporanea. Ci è arrivata anche la proposta di una sorta di tributo a Paolo Conte con Kruger dei Nobraino. La stiamo valutando perché l’autore ci piace molto. Magari un giorno arriveremo a fare un disco solo strumentale ed uno spettacolo dal vivo dove commenteremo le immagini di film d’autore o documentari. Al momento sono solo idee ma si potrebbero concretizzare.

james cook was here! 





i Quintorigo sono:
Valentino Bianchi - Sax

Andrea Costa - Violino
Gionata Costa - Violoncello
Stefano Ricci – Contrabbasso


*grazie a Francesco Telandro per le foto.

**grazie a Ellebi per l'assistenza.

articolo pubblicato su just kids Webzine #2

mercoledì 14 novembre 2012

grimoon - souvenirs (2012)

gli italo-francesi grimoon nascono nel 2002 da un'idea di solenn le marchand e alberto stevanato, come progetto musicale e video. il nome, quello di un gatto di solenn, tutto grigio e grande dormiglione, per intero sarebbe “gris moon”, dove “gris” sta per “grigio” in francese e “moon” per “luna” in inglese. dunque “luna grigia”.nel 2004, insieme a un amico, fondano l'etichetta macaco records, che risponde al bisogno istintivo di stare assieme, di aiutarsi, di essere parte di qualcosa e di avviare e sostenere percorsi artistici, sdrammatizzando e definendosi appunto "macachi". l'idea base è quella di lottare contro l'individualismo, creare una comunità artistica in cui le persone coinvolte possano sostenersi a vicenda. questa consapevolezza cresce sempre più da quando due macachi si sono trasferiti nella co-housing rio selva, una grande casa colonica ubicata a preganziol (tv), che accoglie al suo interno diversi nuclei familiari, uniti dal desiderio di condividere uno spazio e di sperimentare una nuova forma di vita comunitaria.
nel 2012 esce il quarto disco della band, "le déserteur", cantato quasi esclusivamente in lingua francese da solenn che si occupa anche della scrittura dei pezzi e della realizzazione di tutti i cortometraggi della band in collaborazione con alberto (voce e chitarre).

i grimoon sono una parentesi unica nel mondo musicale italiano, sia per le loro sonorità con molte influenze, sia perché loro stessi creano un video per ogni loro canzone. questi video accompagnano ogni loro live in giro per l'italia, l'europa e oltre oceano, facendo entrare gli spettatori in una dimensione parallela fiabesca e spettrale. ecco un assaggio…


*grazie a ellebi per il prezioso aiuto.

lunedì 12 novembre 2012

L'ultimo ricatto - intervista a Paolo Saporiti

Paolo Saporiti è un cantautore milanese che ha da poco pubblicato il suo quarto disco L’ultimo ricatto. Un lavoro impreziosito dalle destrutturazioni di Xabier Iriondo, in un incrocio tra sperimentazione e bozzetti acustici. Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione all'Elf Teatro di Milano e ne abbiamo approfittato per una lunga conversazione che ha abbracciato parecchi temi…
Questa sera presenti il nuovo disco nella “tua” Milano. Come ti senti?
E’ strano, in realtà difficile, perché giochi in casa. C’è tanta gente che ti ha già visto e tanta che non ha assolutamente idea che tu esista. E’ difficile in questo momento della mia vita vedere che tante persone stanno capendo quello che faccio. E’ veramente la prima volta che succede. In questi anni ho visto alcune persone avvicinarsi ed entrare in contatto con me, ma mi sembra che ora ci sia uno scatto un po’ diverso. Sarà che io mi sento un po’ diverso, che il disco suona in un modo nuovo. Milano è il bacino di utenza. Secondo me, solo in un posto così, incontri artisti come Xabier (Iriondo), Cristiano Calcagnile… Alla fine solo Roma riesce ad essere un polo di attrazione alternativo, anche se questo è un po’ paradossale. Diciamo sempre che Milano è morta ed ha dei problemi enormi con la cultura, però alla fine è uno dei pochi luoghi in cui si riescono a fare certe cose. Io ho vissuto alcuni anni a Torino nel periodo dell’università e mi piaciuta tantissimo, probabilmente anche perché in quegli anni sei permeabilissimo, tutto “ti entra”. Torino è molto cosmopolita, così aperta dal punto di vista delle influenze, ricorda un po’ Parigi come città. Li ho creato le basi di come sono adesso, perché prima ero molto più chiuso. Ho vissuto anche ad Arona e penso che il mio disco senza Milano sarebbe un disco "bucolico”, un disco folk in cui esprimere il contatto con la natura. Personalmente faccio fatica a suonare in un posto con un impatto forte da un punto di vista naturale. Mi adeguo molto a quello che mi trasmette, sviluppando solo le note che si rapportano con essa. La “violenza" di un disco così come la intendo io, secondo me, nasce soltanto in un posto come Milano. Lì ti viene in mente di creare un’opposizione a qualche cosa di naturale e spontaneo. Cercavo proprio quello: qualcosa che si opponesse e tagliasse di traverso la mia idea di musica fine a sé stessa. Xabier è stata la persona perfetta per realizzare il mio progetto. Gli ho chiesto di fare molto di più, di devastare molto di più, di creare l’apocalisse. In realtà lui l’ha fatto con molta discrezione, rispettando tantissimo le mie richieste. Ci sono momenti in cui lui lascia molto spazio ed altri in cui va vicino all'invasione, ma senza farlo completamente. Arriva dalla tradizione e coniuga doti di sensibilità, conoscenza ed intelligenza molto elevate: per me, il punto di incontro, è lì.

Tu hai inciso soltanto un brano con testo in italiano nella tua carriera…
per ora ho inciso e stampato soltanto “gelo”. Ho anche un altro pezzo in italiano, si intitola “Erica”. Lo porto con me da quando avevo 18 anni e prima o poi verrà pubblicato.

Parliamo del disco: il titolo è in italiano e i testi in inglese. Non temi che l’ascoltatore possa perdere il messaggio che vuoi trasmettere? 
si, non per niente ho messo le traduzioni. Però per come io usufruisco della musica il testo arriva dopo. Il mio, con la musica, è un rapporto emotivo sonoro, le parole mi arrivano in un secondo tempo, anche quando ascolto i grandi. In realtà do molta fiducia alla mia pancia. Se ascolto un grande come Jeff Buckley non ho bisogno di capire cosa mi sta dicendo, lo so già, ci “sono dentro”. Lui, palesemente, sta cavalcando un certo tipo di emozione e di sentire. Io credo in questo, nel mio modo di esprimere la musica cerco di rincorrere questo “metodo” e di abitarlo. Non avere il patema di fare arrivare il messaggio esattamente con quello che sto dicendo. In realtà però mi sto muovendo in quella direzione, i titoli in italiano vogliono dire che, pian pianino, mi piacerebbe iniziare a raccontarmi un po’ di più,  quindi anche il linguaggio e la lingua diventano una forma espressiva  interessante.
Il disco due di "irrintzi" inizia con la cover di “reason to believe”, stravolta da Xabier Iriondo e interpretata dalla tua voce. Com’è andata?
Se lo ascolto mi vergogno un pochino perché ho cantato come mi ha chiesto lui, con un arrangiamento alla “suicide”, in modo molto lineare e abbastanza asettico. Risentirmi mi fa abbastanza effetto perché, nelle mie cose, cerco di mettere tanto, mentre qui ci sono pochi personalismi con la voce. Sono stato onoratissimo della proposta, il fatto che la scelta sia ricaduta su “reason to believe” è una cosa che mi tocca, partendo solo dal testo, senza addentrarmi nei risvolti musicali della canzone. Non c’è punto di incontro maggiore per chi, come noi, credendo in quello che fa, sta cercando di combattere una battaglia contro l’omologazione del mondo musicale italiano. Collaborare è il modo migliore di coltivare una “ragione in cui credere”. Il rapporto con Xabier mi emoziona molto, avere avuto l’opportunità di lavorare con lui è stato davvero bello. Come gli Afterhours, che fanno parte di un mondo musicale indipendente che io non conosco bene, che comunque stimo molto, perché in entrambi riconosco la capacità di mettersi “di traverso” rispetto al sentire comune.

In che modo hai conosciuto Xabier Iriondo e com’è nata l’idea della produzione del tuo disco?
Ci siamo conosciuti al suo negozio (Sound metak) dove ho suonato due volte, da lì, poi, è nata la collaborazione per il mio ep “Just let it happen”. Praticamente ci sono due brani dove lui è intervenuto. Questi pezzi mi hanno permesso di capire che lui era veramente la persona giusta, che mi avrebbe permesso di entrare e toccare elementi della sua musica. Per me è stato incredibile sia che lui volesse coinvolgermi in questo progetto, sia la modalità con cui abbiamo registrato il tutto.

Dopo alcuni dischi con un’etichetta indipendente (canebagnato records), sei approdato ad una major (universal) ed ora sei tornata ad una produzione “indie” (orange home records). Con questo disco dici (perlomeno lo dice la cartella stampa) che intendi uscire dall'angolo in cui ti eri andato a mettere negli ultimi anni in ambito musicale… Ti riferisci per caso alla multinazionale?
Si, mi riferisco anche alla major, ne sono uscito abbastanza scornato. Ci sono vari aspetti che non mi hanno convinto in tutta l’esperienza. Può sembrare una piccola cosa ma se il titolo del tuo disco è “I could die alone” e la casa discografica ti mette nelle condizioni di pensare che, per leggi di mercato, la parola “die” è controproducente, quindi ti spinge a mettere solo “alone”, certo, non ti stanno sparando in testa, però parte di quello che stavi facendo e di quello che avevi in mente viene snaturato. “I could die alone” per me era la scoperta dell’altro. “io potrei morire da solo” nel senso che “se rimango solo, potrei morire”. L’aspetto che volevo enfatizzare è stata la fortuna di passare da “the restless fall” – chitarra e voce - a “just let it happen” con collaborazioni. Prima “Don quibol” in un trio, poi Teho Teardo, completamente arrangiato. Ora sto attraversando  un’altra fase. Il mio percorso, però, non è così consapevole, la mia idea è quella dell’ep “just let it happen”. Lascio che le cose accadano e che siano loro, in base alla libertà che mi sono concesso, a portare me da qualche parte. L’unica cosa che ho cercato nella mia vita fino ad ora è stata  di mantenermi il più libero possibile, rimanendo in strettissimo contatto con le mie emozioni, in modo tale che queste guidino ogni scelta razionale.
Per quanto riguarda l’esperienza con l’Universal, tutto è cominciato con un concerto in apertura a Badly Drawn Boy, chitarra e voce. Una ragazza ha  comprato il disco, poi, dopo un po’ di tempo, mi ha contattato una persona della Universal ed abbiamo avviato il rapporto. A partire dal titolo che ti viene cambiato, finendo con l’ufficio stampa che lavora per te, o accettando che debbano essere loro a guidare la macchina per andare a Verona a suonare, comunque apprendi un linguaggio che significa delegare ad altri una parte determinante del tuo lavoro. Questo, per chi, come me, nasce chitarra e voce, non è semplice. Attraverso questa esperienza mi son dovuto rendere conto che, un mondo di un certo tipo, non ha capito quello che volevo proporre e non l’ha supportato. Il problema  fondamentale è proprio quello. Io per un attimo ho pensato che Universal Classica fosse una forma indipendente nel mondo major. Lo è stato, però con i difetti che caratterizzano le  sottoproduzioni. Forse quel disco era meno azzeccato di quello di oggi, ero indietro nel processo di scrittura. Ho iniziato proponendo degli embrioni di brani appena scritti, ma non ho trovato chi fosse disposto ad ascoltarli. Se il progetto prevede che ci sia una produzione, nel mio mondo dei sogni dovrebbe equivalere, in fondo, ad un lavoro d’equipe. Oggi, invece,se non arrivi con un progetto fatto e finito, con il master pronto, a “loro” non interessi…
In generale, mi sembra che spesso i tuoi testi affrontino temi tristi (solitudine, morte…) ed anche le atmosfere sono piuttosto malinconiche. E’ la vita ad essere triste o sei tu ad essere particolarmente affezionato a queste atmosfere?
In realtà io sono convinto di essere positivo. Credo fermamente che io sono, nella scoperta di quello che provo. Se la vita ti presenta dei momenti tosti carichi di sofferenza, penso che  solo tuffandotici dentro riesci a trovare la chiave per superarli e soprattutto per crescere, che è uno degli obiettivi della mia vita. Mi sono trovato nella condizione di poter scegliere e la mia scelta è stata crescere, cercare il modo più eclatante e interessante per farlo. La rabbia che ho provato rapportandomi con la major nasce tutta da questa mia esigenza: per una persona come me, che ha così tanta fame, così tanta predisposizione alla crescita, buttare nel cesso tutto come se fosse scontato lo trovo un vero insulto.

La tua forma privilegiata d'espressione è il folk. Com’è nato questo amore e quali sono gli artisti a cui ti ispiri e  che ascolti maggiormente?
L’amore è nato da quello che mi hanno trasmesso mio padre e mio zio. Mio padre, da quando lo ricordo per la prima volta, aveva le cuffie in testa. Io sono cresciuto con il giradischi della fisher price con i 45 giri e le fiabe. Mio zio suonava la chitarra e cantava abbastanza bene. Lui mi ha mostrato cosa significa interpretare Joni Mitchell, Tom Waits e Bruce Cockburn. Mi ha fatto capire che ci si può emozionare anche ascoltando una versione di questi grandi fatta da una persona a te vicina. E’ questa la magia della musica: quando una canzone funziona, se c’è una persona predisposta ad accogliere quella che è la sua essenza, non c’è santo…
Oltre agli artisti che ho citato, ascolto molto volentieri anche Tim Buckley, Van MorrisonLeonard Cohen (che ho visto l’altra sera a Verona).  Ascoltando lui  ti rendi conto che c’è una sottile linea di confine tra l’essere sincero, aver scavato a fondo in te stesso, e lo  svendere poi il tutto. Io sto cercando in tutti i modi di fermare, di tenere sotto controllo questo atteggiamento, che ha a che fare con il dare in pasto alle persone quello che si aspettano. Nel concerto di Verona ho ascoltato una prima parte meravigliosa, idilliaca, non sbagliava niente, dal vivo pigliava delle note che nemmeno nei dischi arrivano così bene; Nella seconda parte stavo per andarmene: il ritmo è salito, le cose sono diventate più facili, ha iniziato a ripetere gesti ridondanti. C’è una misura che un uomo di quella qualità io penso non dovrebbe superare. Bisogna anche dire, però, che quando senti che il tempo se ne sta andando e la morte si avvicina, la voglia di esserci, di lasciare un segno cresce. Soprattutto in un uomo che ha la possibilità di esibirsi di fronte ad un oceano di persone pronte a reagire alle emozioni che lui suscita.
Ho letto che ogni volta che ti sposti porti sempre con te molti dischi e molti libri. Com’è il tuo rapporto con la lettura?
Mia madre mi prende per il culo, è come se ricostruissi il nido ogni volta. La musica è perennemente presente nella mia vita, i libri invece arrivano tanto nell’ultimo decennio. In questo momento la mia vita è praticamente fatta di lettura e di ascolto e probabilmente di quello che ho letto, ascoltato e fatto mio. La cosa bella è che ascoltando jeff buckley e thom yorke, miei coetanei, condivido radicalmente il loro punto di vista rispetto al mondo. Non avere invece dei referenti in Italia fa si che tu i rapporti ce li abbia principalmente con i libri e con i dischi. Anche l’amore per Van Morrison, James Taylor, Neil Young, Nick Drake: per parlare di loro devo parlare con gente che ha 50 anni, perché sanno di cosa parlo. Ci sono alcuni della mia generazione che hanno avuto la fortuna di incontrarli ma adesso il problema è di quello che verrà, per quello io sono molto legato al passato, alla tradizione.
Io ho iniziato facendo cover e mi rendevo conto che i miei compagni non avevano idea di cosa volesse dire ascoltare musica di una certa qualità. Io andavo nei bar di moda a Torino, in orario aperitivo e provavo a propormi suonando Tom Waits chitarra e voce, a rischio di risultare fastidiosissimo…

Stasera presenterai due video ed in passato hai già lavorato commentando delle immagini ancora con Mattia Costa. Cosa ne pensi dell’effetto che possano produrre musica ed immagini insieme?
Il cinema ha il valore dei libri e dei dischi per me, come qualsiasi forma di arte che ti smuova qualche cosa che diventa tutto bagaglio. Le mie canzoni sono quasi sempre legate ad un immagine precisa. Non racconto grandi cose ma è quell’emozione che deriva dall’immagine. Un esempio su tutti il brano “toys”, dove c’è l’immagine del bambino nella sua stanza che gioca con le sue paure ed un genitore che non è in grado di permetterglielo perché magari ha paura lui. Io ho sempre pensato che l’individuo fosse la base della società e quindi la grande evoluzione penso sia individuale. Adesso credo che la politica in questo momento manchi e probabilmente è per un errore forse anche di gente come me che si legata troppo all’individualismo e alla ricerca interiore quando invece c’è bisogno di gente che metta i coglioni sul tavolo e dica che le cose non vanno bene. Partendo sempre dall’individuale però serve non essere troppo concentrati come sono stato io. In questo disco ci sono dei brani che definirei più sociali, come “we are the fuel”, noi siamo la benzina, dove dico proprio “mi sono rotto le palle” e sono un po’ in anticipo. C’è “in the mud”, nel fango, nella massa, prima di Saviano. L’idea è che aver parificato tutto e far si che tutti possano parlare allo stesso modo senza differenze in televisione, tirare giù i migliori per livellare tutto quanto è stato devastante…


Che rapporto hai con il pubblico? Penso ad una tua dichiarazione in cui affermi che richiedi un certo tipo di sforzo all'ascoltatore...lo stesso che chiedi a te stesso quando ascolti gli altri ?
La richiesta che io ho per quanto riguarda me è crescere, e lo stesso pretendo dalla gente. Per me non esiste che la gente si accontenti di quello che le viene dato e che si accetti di colpevolizzare qualcuno come la ragione dell’impoverimento degli altri. Se uno è un coglione puoi non ascoltarlo, se abbiamo l’Italia che ha dato retta a un coglione la colpa è degli italiani che lo hanno ascoltato. Se ha senso fare queste cose oggi è proprio per dire che, anche se non siamo in tanti, proviamo a dire che ci sono cose diverse da quelle del passato…
Avevi un sito internet graficamente bellissimo e molto curato. Oggi non è più aggiornato ed ho letto che in passato hai privilegiato un marketing fatto di “passaparola”. La pensi ancora così?
Internet in fondo è una forma di passaparola. la speranza del lavoro che stiamo facendo con Raffaele (Abbate) credo che nasca proprio da questo, partire dal piccolo e su questo costruire. Rispetto all’immobilismo e ai sogni che ci hanno tolto, questa è un’ipotesi che proviamo a costruire. Il passaparola a volte è complicato e internet non è sempre la realtà. Facebook dice delle cose ma poi bisogna verificarle di persona.

Qual è l’ultimo ricatto?
l’ultimo ricatto può anche essere avere aderito a una parte di me stesso che non si esprimeva completamente. Accettare l’idea che la prospettiva e il percorso siano ancora molto lunghi. Essersi bloccato in qualche cosa, appoggiato ad una major che possa fare per te, essersi appoggiato ad un linguaggio che emotivamente conosci. Anche in questo caso uscire da qualche cosa che alla fine diventa quasi un ricatto a se stesso. Essersi messo chiuso in un angolo con qualche sensazione che in questo caso centra con me in prima persona, non per forza di cose dall’esterno…

la traccia 12 del disco si intitola F.R.I.P.P. è un acronimo o un omaggio?
Fa parte dell’ultimo ricatto. Sono aspetti del passato che a volte ti tengono bloccato in qualche cosa d’altro. Nonostante si amino delle cose che per me abbiano significato tanto e forse proprio per quello mi bloccano, mi “freezano”. Avere la forza di dire che una cosa è bellissima e che ha un valore, ma bisogna venirne fuori. A me piaceva molto poi l’idea che ci fosse Fripp, la citazione del musicista, ed io non a caso gli ho dato una voce che sembra un po’ da anziano, molto sussurrata. C’è un qualcosa che ha a che fare con il passato, la morte, la chiusura di un affetto…

Zeno Gabaglio che impreziosisce i tuoi live. Come ti trovi con lui?
Zeno per un po’ di tempo è stato la mia coscienza. Io stavo suonando con Francesca Ruffilli al violoncello, che era la mia fidanzata tra le altre cose. Finita la storia poi c’è stato un periodo di vita e musicale molto complicato con lei, che ha continuato a suonare con me per un po’. Il passaggio è stato arrivare a qualcosa di più professionale, qualcosa che esulasse un pochino da rapporti troppo personali. Questa era un po’ l’idea che mi suggeriva Teho (Teardo) in quel momento. Quindi ora Zeno sostituisce il quartetto e tutto quello che Theo ha messo in “Alone”.





[James Cook was here!]


*grazie ad Andrea Furlan per il supporto.


articolo pubblicato su just kids Webzine #2

sabato 10 novembre 2012

jocelyn pulsar - 25.000 anni fa (2012)

jocelyn pulsar è l’unione tra il nome della scienziata astronoma jocelyn bell burnell e la sua scoperta principale, le pulsar (stelle di neutroni). nasce come nome di un gruppo che, dopo il primo disco/demo del 2003, ha cessato di esistere, o meglio, si è sintetizzato nella persona di francesco pizzinelli. jocelyn pulsar ha realizzato quest’anno il suo quinto album aiuole spartitraffico coltivate a grano.

il video del primo singolo, 25.000 anni fa , realizzato dall’illustratrice giulia sagramola (sua è anche la copertina del disco) con la regia di luca coralli, ha vinto il premio "zero clip" come miglior video musicale allo "zero trenta" festival di ferrara.
il brano è un tenerissimo racconto che ci mostra come una delle poche costanti nella storia evolutiva dell’uomo sia rappresentata dai sentimenti, in particolare dall’amore.

25000 anni fa 
25000 anni fa, prima di facebook, prima della pubblicità,
ma anche prima dell'asfalto, dell'elettricità, 
forse la ruota invece c'era ma era una grande novità,
e quando il traffico non esisteva, o meglio c' era ma consisteva
 in tre persone in fila in una chilometro quadrato di brughiera,
a volte quattro  ma verso sera:
tu, tu mi piacevi già, anche se eravamo diversi,
io quasi uno scimmione, 
per te sarebbe arrivata molti anni dopo la depilazione ma
io ti pensavo già,
 nel buio della caverna, in mezzo ai pidocchi,
cos' è quest'acqua che mi scende  dagli occhi?
25000 anni fa non c'era la corrente elettrica eppure io ti pensavo,
io ti pensavo lo stesso, tu mi pensavi lo stesso,
25000 anni fa non c'era la coperta termica eppure io ti scaldavo,
io ti scaldavo lo stesso, tu mi scaldavi lo stesso;
va bene se stasera ci vediamo? Poi non lo so che cosa facciamo:
ti offrivo l'acqua piovana, la cena se ti andava,
magari la uccido mentre sono per strada! 
e poi vedrai che un fuoco lo troviamo,
poi andiamo nella mia caverna e ci baciamo,
e poi magari proseguiamo, tra 25000 anni qui saremo a  Milano,
noi intanto lo aspettiamo! 
25000 anni fa non c' era la corrente elettrica eppure mi elettrizzavi,
mi elettrizzavi lo stesso, ti caricavo lo stesso,
25000 anni fa non c' era la coperta termica eppure io ti scaldavo,
io ti scaldavo lo stesso, tu mi scaldavi lo stesso
non ti arrabbiare, scusa se ho fatto tardi,
ma ho faticato a guadare il fiume invaso dai coccodrilli
e dalle bisce giganti,
e poi mi ha attraversato una mandria di mille dinosauri mutanti,
che cosa c' è? Perchè mi stai guardando? Scusami amore,
se non mi credi adesso, quando?
5000 anni fa non c' era la corrente elettrica eppure io ti pensavo,
io ti pensavo lo stesso, tu mi pensavi lo stesso,
25000 anni fa non c' era la coperta termica eppure io ti scaldavo,  
io ti scaldavo lo stesso, tu mi scaldavi lo stesso.





giovedì 8 novembre 2012

l'iniziazione - di juri dal dan

Arrivai al locale dopo 25 chilometri gelati di motorino, avevo 17 anni e avrei sfidato Satana in persona pur di uscire di casa e andare a sentire musica. Avevo saputo da amici che quella sera avrebbe suonato un sassofonista ventiquattrenne che pareva un marziano da quanto era bravo. Entrai ancora infreddolito nel locale stracolmo, gli occhiali mi si appannarono e con impaccio mi sbarazzai della mia merdosissima giaccavento: la musica era già cominciata. Il quartetto suonava brani di Coltrane, io intanto cercavo posto tra le persone che ascoltavano rapite ed ammutolite, lo trovai, mi sedetti e cominciai a godere. Ammiravo la loro disinvoltura ed assoluta bravura, quei quattro dovevano aver attraversato molte notti per suonare così: notti vibranti di musica che avvolgono le insegne luminose dei clubs e che ingoiano il fumo delle sigarette, notti piovose dove la tristezza fradicia precipita nei tombini ma non se ne va. Il Jazz è musica per anime dannate. Anime in pena, nascoste come i cani randagi che ti sorprendono nel buio: a volte ti amano, spesso scappano, raramente ti sbranano. Io li ammiravo, godevo e imploravo una cerimonia di iniziazione per poter far parte di quel mondo, anch'io mi sentivo dannato come loro. Mentre le note fluivano insieme alla mia anima ormai rapita, accadde qualcosa di straordinario: il contrabbassista nella veemenza ruppe una corda e smise di suonare, anche il pianista non sentendo più la terra sotto i piedi si fermò, rimasero come due sopravvissuti, il batterista ed il giovane sassofonista i quali cominciarono con il coraggio di chi non ha più nulla da perdere, ad intrecciare ritmi e melodie profonde come le ferite dei canini che lacerano e penetrano nella carne. Il pubblico, ormai catturato dalla vorticosa giostra delle note cominciò a sudare e a lanciare gridi di approvazione . Il sassofonista guidava tutti attraverso improvvise salite e repentine discese, era come se ci avesse agganciato allo stomaco trascinandoci senza pietà davanti alla sconcertante e sorprendente intimità di ciascuno. Mi sentivo un danzatore che attorno al fuoco stringe la mano ai suoi simili perché così la vastità della notte fa meno paura, avevo la netta sensazione di rivivere i momenti in cui i primitivi lanciavano i rimasugli del pasto agli sciacalli. Forse è questo che cercavo nella musica: un istinto primitivo, o forse era la musica stessa che me lo stava trasmettendo in quel momento, so solo che avevo la gola chiusa e gli occhi che brillavano. Il contrabbassista riparò la corda e insieme al pianista stavano per mettere fine a quel volo straordinario che ho udito in seguito solo dai grandi musicisti. L'assolo finì in urlo di tribù.
Quella sera tornai a casa con il caldo nel cuore. Satana era stato momentaneamente sconfitto e avrei suonato fino alle sette del mattino se le regole del condominio me lo avessero permesso. Non fu così. Alle sette aspettavo il pullman per andare a scuola come tutti gli altri.
Ah dimenticavo il sassofonista era Francesco Bearzatti.

Juri Dal Dan



martedì 6 novembre 2012

alessandro grazian - armi (2012)

"armi", primo video per alessandro grazian. primo in assoluto. nonostante sia ormai al terzo disco, più un paio di ep, grazian non aveva mai realizzato un videoclip ufficiale. singolo e title track del nuovo album, uscito un mesetto fa, è un pezzo tirato, potenziale singolo rock radiofonico, con il chiaro obiettivo di marcare uno stacco con il suo passato.
armi come lui stesso dice "è un disco figlio di questi tempi con il quale sono voluto scendere in trincea, cambiando attitudine nelle note e nei testi. ho ripreso in mano le redini del mio percorso artistico con intenzioni aggressive".
essendo al suo debutto video, giustamente, alessandro grazian ci teneva a mettersi al centro della scena: è lui, infatti, l'unico protagonista. il cantante è solo con la sua chitarra, in un ambiente grigio, non decifrabile, mosso da qualche tubo luminoso. un video minimale e a suo modo retrò, cui regia è firmata da fabio capalbo.

domenica 4 novembre 2012

nicolò carnesi - mi sono perso a zanzibar (2012)


itaca

quando ti metterai in viaggio per itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
i lestrigoni o i ciclopi
o la furia di Nettuno non temere: 
non sara' questo il genere di incontri 
se il pensiero resta alto e un sentimento 
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. 
in ciclopi o lestrigoni no certo, 
ne' nell'irato Nettuno incapperai 
se non li porti dentro 
se l'anima non te li mette contro. 
devi augurarti che la strada sia lunga, 
che i mattini d'estate siano tanti 
quando nei porti – finalmente e con che gioia - 
toccherai terra tu per la prima volta: 
negli empori fenici indugia e acquista 
madreperle coralli ebano e ambre, 
tutta merce fina, e anche profumi 
penetranti d'ogni sorta, piu' profumi 
inebrianti che puoi, 
va in molte citta' egizie 
impara una quantita' di cose dai dotti. 
sempre devi avere in mente itaca – 
raggiungerla sia il tuo pensiero costante. 
soprattutto, pero', non affrettare il viaggio; 
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio 
metta piede sull'isola, tu, ricco 
dei tesori accumulati per strada 
senza aspettarti ricchezze da Itaca. 
itaca ti ha dato il bel viaggio, 
senza di lei mai ti saresti messo 
in viaggio: che cos'altro ti aspetti? 
e se la trovi povera, non per questo itaca ti avra' deluso. 
fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso 
gia' tu avrai capito cio' che Itaca vuole significare. 

“è palese, zanzibar non è un luogo, è un idea. riprendo l’immagine del viaggio come mezzo per cercare quel quid che ci completi, che ci possa dare la dose di serenità / felicità / appagamento cui tutti aneliamo .
suonai ad un festival qui in sicilia, dopo di me c’era brunori sas, alla fine del concerto ci scambiammo dei dischi, proposi a dario di cantare in questo pezzo.
mi piaceva l’idea che lui fosse un alter ego, un me cresciuto, un po’ “sciupato” da questo viaggiare, forse un po’ più disincantato la sua voce più decisa e agra della mia a rendere l’idea. mi piace immaginare il personaggio del pezzo cosi, dieci anni dopo, con la voce più scura, ma ancora alla ricerca di qualcosa, che può chiamarsi zanzibar, charlotte o semplicemente felicità, ma che comunque ci spinga alla ricerca”
(nicolò carnesi


"ma tu charlotte non mi scordare
anche se sono perso in mare
ti giuro un giorno mi vedrai tornare
e non temere le stagioni
passano gli anni e i capodanni
passano anche i sentimenti..."