Paolo Saporiti è un cantautore milanese che ha da poco pubblicato il suo quarto disco L’ultimo ricatto. Un lavoro impreziosito dalle destrutturazioni di Xabier Iriondo, in un incrocio tra sperimentazione e bozzetti acustici. Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione all'Elf Teatro di Milano e ne abbiamo approfittato per una lunga conversazione che ha abbracciato parecchi temi…
Questa sera presenti il nuovo disco nella “tua” Milano. Come ti senti?
E’ strano, in realtà difficile, perché giochi in casa. C’è tanta gente che ti ha già visto e tanta che non ha assolutamente idea che tu esista. E’ difficile in questo momento della mia vita vedere che tante persone stanno capendo quello che faccio. E’ veramente la prima volta che succede. In questi anni ho visto alcune persone avvicinarsi ed entrare in contatto con me, ma mi sembra che ora ci sia uno scatto un po’ diverso. Sarà che io mi sento un po’ diverso, che il disco suona in un modo nuovo. Milano è il bacino di utenza. Secondo me, solo in un posto così, incontri artisti come Xabier (Iriondo), Cristiano Calcagnile… Alla fine solo Roma riesce ad essere un polo di attrazione alternativo, anche se questo è un po’ paradossale. Diciamo sempre che Milano è morta ed ha dei problemi enormi con la cultura, però alla fine è uno dei pochi luoghi in cui si riescono a fare certe cose. Io ho vissuto alcuni anni a Torino nel periodo dell’università e mi piaciuta tantissimo, probabilmente anche perché in quegli anni sei permeabilissimo, tutto “ti entra”. Torino è molto cosmopolita, così aperta dal punto di vista delle influenze, ricorda un po’ Parigi come città. Li ho creato le basi di come sono adesso, perché prima ero molto più chiuso. Ho vissuto anche ad Arona e penso che il mio disco senza Milano sarebbe un disco "bucolico”, un disco folk in cui esprimere il contatto con la natura. Personalmente faccio fatica a suonare in un posto con un impatto forte da un punto di vista naturale. Mi adeguo molto a quello che mi trasmette, sviluppando solo le note che si rapportano con essa. La “violenza" di un disco così come la intendo io, secondo me, nasce soltanto in un posto come Milano. Lì ti viene in mente di creare un’opposizione a qualche cosa di naturale e spontaneo. Cercavo proprio quello: qualcosa che si opponesse e tagliasse di traverso la mia idea di musica fine a sé stessa. Xabier è stata la persona perfetta per realizzare il mio progetto. Gli ho chiesto di fare molto di più, di devastare molto di più, di creare l’apocalisse. In realtà lui l’ha fatto con molta discrezione, rispettando tantissimo le mie richieste. Ci sono momenti in cui lui lascia molto spazio ed altri in cui va vicino all'invasione, ma senza farlo completamente. Arriva dalla tradizione e coniuga doti di sensibilità, conoscenza ed intelligenza molto elevate: per me, il punto di incontro, è lì.
Tu hai inciso soltanto
un brano con testo in italiano nella tua carriera…
per
ora ho inciso e stampato soltanto “gelo”.
Ho anche un altro pezzo in italiano, si intitola “Erica”. Lo porto con me da
quando avevo 18 anni e prima o poi verrà pubblicato.
Parliamo del disco: il
titolo è in italiano e i testi in inglese. Non temi che l’ascoltatore possa
perdere il messaggio che vuoi trasmettere?
si,
non per niente ho messo le traduzioni. Però per come io usufruisco della musica
il testo arriva dopo. Il mio, con la musica, è un rapporto emotivo sonoro, le
parole mi arrivano in un secondo tempo, anche quando ascolto i grandi. In
realtà do molta fiducia alla mia pancia. Se ascolto un grande come Jeff Buckley
non ho bisogno di capire cosa mi sta dicendo, lo so già, ci “sono dentro”. Lui,
palesemente, sta cavalcando un certo tipo di emozione e di sentire. Io credo in
questo, nel mio modo di esprimere la musica cerco di rincorrere questo “metodo”
e di abitarlo. Non avere il patema di fare arrivare il messaggio esattamente con
quello che sto dicendo. In realtà però mi sto muovendo in quella direzione, i
titoli in italiano vogliono dire che, pian pianino, mi piacerebbe iniziare a
raccontarmi un po’ di più, quindi anche
il linguaggio e la lingua diventano una forma espressiva interessante.
Il disco due di "irrintzi" inizia con la cover di “reason to believe”, stravolta da Xabier Iriondo e interpretata dalla tua voce. Com’è andata?
Se lo ascolto mi vergogno un pochino perché ho cantato come mi ha chiesto lui, con un arrangiamento alla “suicide”, in modo molto lineare e abbastanza asettico. Risentirmi mi fa abbastanza effetto perché, nelle mie cose, cerco di mettere tanto, mentre qui ci sono pochi personalismi con la voce. Sono stato onoratissimo della proposta, il fatto che la scelta sia ricaduta su “reason to believe” è una cosa che mi tocca, partendo solo dal testo, senza addentrarmi nei risvolti musicali della canzone. Non c’è punto di incontro maggiore per chi, come noi, credendo in quello che fa, sta cercando di combattere una battaglia contro l’omologazione del mondo musicale italiano. Collaborare è il modo migliore di coltivare una “ragione in cui credere”. Il rapporto con Xabier mi emoziona molto, avere avuto l’opportunità di lavorare con lui è stato davvero bello. Come gli Afterhours, che fanno parte di un mondo musicale indipendente che io non conosco bene, che comunque stimo molto, perché in entrambi riconosco la capacità di mettersi “di traverso” rispetto al sentire comune.
In che modo hai conosciuto Xabier Iriondo e com’è nata l’idea della produzione del tuo disco?
Ci
siamo conosciuti al suo negozio (Sound metak) dove ho suonato due volte, da lì,
poi, è nata la collaborazione per il mio ep “Just let it happen”. Praticamente
ci sono due brani dove lui è intervenuto. Questi pezzi mi hanno permesso di
capire che lui era veramente la persona giusta, che mi avrebbe permesso di
entrare e toccare elementi della sua musica. Per me è stato incredibile sia che
lui volesse coinvolgermi in questo progetto, sia la modalità con cui abbiamo
registrato il tutto.
Dopo alcuni dischi con un’etichetta
indipendente (canebagnato records), sei approdato ad una major (universal) ed
ora sei tornata ad una produzione “indie” (orange home records). Con questo
disco dici (perlomeno lo dice la cartella stampa) che intendi uscire
dall'angolo in cui ti eri andato a mettere negli ultimi anni in ambito
musicale… Ti riferisci per caso alla multinazionale?
Si,
mi riferisco anche alla major, ne sono uscito abbastanza scornato. Ci sono vari
aspetti che non mi hanno convinto in tutta l’esperienza. Può sembrare una
piccola cosa ma se il titolo del tuo disco è “I could die alone” e la casa
discografica ti mette nelle condizioni di pensare che, per leggi di mercato, la
parola “die” è controproducente, quindi ti spinge a mettere solo “alone”,
certo, non ti stanno sparando in testa, però parte di quello che stavi facendo
e di quello che avevi in mente viene snaturato. “I could die alone” per me era
la scoperta dell’altro. “io potrei morire da solo” nel senso che “se rimango
solo, potrei morire”. L’aspetto che volevo enfatizzare è stata la fortuna di passare da “the
restless fall” – chitarra e voce - a “just let it happen” con collaborazioni.
Prima “Don quibol” in un trio, poi Teho Teardo, completamente arrangiato. Ora
sto attraversando un’altra fase. Il mio
percorso, però, non è così consapevole, la mia idea è quella dell’ep “just let
it happen”. Lascio che le cose accadano e che siano loro, in base alla libertà
che mi sono concesso, a portare me da qualche parte. L’unica cosa che ho
cercato nella mia vita fino ad ora è stata
di mantenermi il più libero possibile, rimanendo in strettissimo
contatto con le mie emozioni, in modo tale che queste guidino ogni scelta razionale.
Per
quanto riguarda l’esperienza con l’Universal, tutto è cominciato con un
concerto in apertura a Badly Drawn Boy, chitarra e voce. Una ragazza ha comprato il disco, poi, dopo un po’ di tempo,
mi ha contattato una persona della Universal ed abbiamo avviato il rapporto. A
partire dal titolo che ti viene cambiato, finendo con l’ufficio stampa che
lavora per te, o accettando che debbano essere loro a guidare la macchina per
andare a Verona a suonare, comunque apprendi un linguaggio che significa delegare
ad altri una parte determinante del tuo lavoro. Questo, per chi, come me, nasce
chitarra e voce, non è semplice. Attraverso questa esperienza mi son dovuto
rendere conto che, un mondo di un certo tipo, non ha capito quello che volevo
proporre e non l’ha supportato. Il problema
fondamentale è proprio quello. Io per un attimo ho pensato che Universal
Classica fosse una forma indipendente nel mondo major. Lo è stato, però con i
difetti che caratterizzano le
sottoproduzioni. Forse quel disco era meno azzeccato di quello di oggi,
ero indietro nel processo di scrittura. Ho iniziato proponendo degli embrioni
di brani appena scritti, ma non ho trovato chi fosse disposto ad ascoltarli. Se
il progetto prevede che ci sia una produzione, nel mio mondo dei sogni dovrebbe
equivalere, in fondo, ad un lavoro d’equipe. Oggi, invece,se non arrivi con
un progetto fatto e finito, con il master
pronto, a “loro” non interessi…
In generale, mi sembra
che spesso i tuoi testi affrontino temi tristi (solitudine, morte…) ed anche le
atmosfere sono piuttosto malinconiche. E’ la vita ad essere triste o sei tu ad
essere particolarmente affezionato a queste atmosfere?
In
realtà io sono convinto di essere positivo. Credo fermamente che io sono, nella
scoperta di quello che provo. Se la vita ti presenta dei momenti tosti carichi
di sofferenza, penso che solo
tuffandotici dentro riesci a trovare la chiave per superarli e soprattutto per
crescere, che è uno degli obiettivi della mia vita. Mi sono trovato nella
condizione di poter scegliere e la mia scelta è stata crescere, cercare il modo
più eclatante e interessante per farlo. La rabbia che ho provato rapportandomi
con la major nasce tutta da questa mia esigenza: per una persona come me, che
ha così tanta fame, così tanta predisposizione alla crescita, buttare nel cesso
tutto come se fosse scontato lo trovo un vero insulto.
La tua forma
privilegiata d'espressione è il folk. Com’è nato questo amore e quali sono gli
artisti a cui ti ispiri e che ascolti
maggiormente?
L’amore
è nato da quello che mi hanno trasmesso mio padre e mio zio. Mio padre, da
quando lo ricordo per la prima volta, aveva le cuffie in testa. Io sono
cresciuto con il giradischi della fisher price con i 45 giri e le fiabe. Mio
zio suonava la chitarra e cantava abbastanza bene. Lui mi ha mostrato cosa
significa interpretare Joni Mitchell, Tom Waits e Bruce Cockburn. Mi ha fatto
capire che ci si può emozionare anche ascoltando una versione di questi grandi
fatta da una persona a te vicina. E’ questa la magia della musica: quando una
canzone funziona, se c’è una persona predisposta ad accogliere quella che è la
sua essenza, non c’è santo…
Oltre agli artisti che ho citato, ascolto molto volentieri anche Tim Buckley,
Van Morrison e Leonard Cohen (che ho
visto l’altra sera a Verona). Ascoltando
lui ti rendi conto che c’è una sottile
linea di confine tra l’essere sincero, aver scavato a fondo in te stesso, e
lo svendere poi il tutto. Io sto
cercando in tutti i modi di fermare, di tenere sotto controllo questo
atteggiamento, che ha a che fare con il dare in pasto alle persone quello che
si aspettano. Nel concerto di Verona ho ascoltato una prima parte meravigliosa,
idilliaca, non sbagliava niente, dal vivo pigliava delle note che nemmeno nei
dischi arrivano così bene; Nella seconda parte stavo per andarmene: il ritmo è
salito, le cose sono diventate più facili, ha iniziato a ripetere gesti
ridondanti. C’è una misura che un uomo di quella qualità io penso non dovrebbe
superare. Bisogna anche dire, però, che quando senti che il tempo se ne sta
andando e la morte si avvicina, la voglia di esserci, di lasciare un segno
cresce. Soprattutto in un uomo che ha la possibilità di esibirsi di fronte ad
un oceano di persone pronte a reagire alle emozioni che lui suscita.
Ho letto che ogni volta
che ti sposti porti sempre con te molti dischi e molti libri. Com’è il tuo
rapporto con la lettura?
Mia
madre mi prende per il culo, è come se ricostruissi il nido ogni volta. La
musica è perennemente presente nella mia vita, i libri invece arrivano tanto
nell’ultimo decennio. In questo momento la mia vita è praticamente fatta di
lettura e di ascolto e probabilmente di quello che ho letto, ascoltato e fatto
mio. La cosa bella è che ascoltando jeff buckley e thom yorke, miei coetanei,
condivido radicalmente il loro punto di vista rispetto al mondo. Non avere invece
dei referenti in Italia fa si che tu i rapporti ce li abbia principalmente con
i libri e con i dischi. Anche l’amore per Van Morrison, James Taylor, Neil
Young, Nick Drake: per parlare di loro devo parlare con gente che ha 50 anni,
perché sanno di cosa parlo. Ci sono alcuni della mia generazione che hanno
avuto la fortuna di incontrarli ma adesso il problema è di quello che verrà,
per quello io sono molto legato al passato, alla tradizione.
Io
ho iniziato facendo cover e mi rendevo conto che i miei compagni non avevano
idea di cosa volesse dire ascoltare musica di una certa qualità. Io andavo nei
bar di moda a Torino, in orario aperitivo e provavo a propormi suonando Tom Waits
chitarra e voce, a rischio di risultare fastidiosissimo…
Stasera presenterai due video ed in passato hai già lavorato commentando delle immagini ancora con Mattia Costa. Cosa ne pensi dell’effetto che possano produrre musica ed immagini insieme?
Il cinema ha il valore dei libri e dei dischi per me, come qualsiasi forma di arte che ti smuova qualche cosa che diventa tutto bagaglio. Le mie canzoni sono quasi sempre legate ad un immagine precisa. Non racconto grandi cose ma è quell’emozione che deriva dall’immagine. Un esempio su tutti il brano “toys”, dove c’è l’immagine del bambino nella sua stanza che gioca con le sue paure ed un genitore che non è in grado di permetterglielo perché magari ha paura lui. Io ho sempre pensato che l’individuo fosse la base della società e quindi la grande evoluzione penso sia individuale. Adesso credo che la politica in questo momento manchi e probabilmente è per un errore forse anche di gente come me che si legata troppo all’individualismo e alla ricerca interiore quando invece c’è bisogno di gente che metta i coglioni sul tavolo e dica che le cose non vanno bene. Partendo sempre dall’individuale però serve non essere troppo concentrati come sono stato io. In questo disco ci sono dei brani che definirei più sociali, come “we are the fuel”, noi siamo la benzina, dove dico proprio “mi sono rotto le palle” e sono un po’ in anticipo. C’è “in the mud”, nel fango, nella massa, prima di Saviano. L’idea è che aver parificato tutto e far si che tutti possano parlare allo stesso modo senza differenze in televisione, tirare giù i migliori per livellare tutto quanto è stato devastante…
Che rapporto hai con il
pubblico? Penso ad una tua dichiarazione in cui affermi che richiedi un certo
tipo di sforzo all'ascoltatore...lo stesso che chiedi a te stesso quando ascolti
gli altri ?
La
richiesta che io ho per quanto riguarda me è crescere, e lo stesso pretendo
dalla gente. Per me non esiste che la gente si accontenti di quello che le
viene dato e che si accetti di colpevolizzare qualcuno come la ragione
dell’impoverimento degli altri. Se uno è un coglione puoi non ascoltarlo, se
abbiamo l’Italia che ha dato retta a un coglione la colpa è degli italiani che
lo hanno ascoltato. Se ha senso fare queste cose oggi è proprio per dire che,
anche se non siamo in tanti, proviamo a dire che ci sono cose diverse da quelle
del passato…
Avevi un sito internet graficamente
bellissimo e molto curato. Oggi non è più aggiornato ed ho letto che in passato
hai privilegiato un marketing fatto di “passaparola”. La pensi ancora così?
Internet
in fondo è una forma di passaparola. la speranza del lavoro che stiamo facendo
con Raffaele (Abbate) credo che nasca proprio da questo, partire dal piccolo e
su questo costruire. Rispetto all’immobilismo e ai sogni che ci hanno tolto,
questa è un’ipotesi che proviamo a costruire. Il passaparola a volte è
complicato e internet non è sempre la realtà. Facebook dice delle cose ma poi
bisogna verificarle di persona.
Qual è l’ultimo
ricatto?
l’ultimo
ricatto può anche essere avere
aderito a una parte di me stesso che non si esprimeva completamente. Accettare
l’idea che la prospettiva e il percorso siano ancora molto lunghi. Essersi
bloccato in qualche cosa, appoggiato ad una major che possa fare per te,
essersi appoggiato ad un linguaggio che emotivamente conosci. Anche in questo
caso uscire da qualche cosa che alla fine diventa quasi un ricatto a se stesso.
Essersi messo chiuso in un angolo con qualche sensazione che in questo caso
centra con me in prima persona, non per forza di cose dall’esterno…
la traccia 12 del disco
si intitola F.R.I.P.P. è un acronimo o un omaggio?
Fa
parte dell’ultimo ricatto. Sono aspetti del passato che a volte ti tengono
bloccato in qualche cosa d’altro. Nonostante si amino delle cose che per me
abbiano significato tanto e forse proprio per quello mi bloccano, mi
“freezano”. Avere la forza di dire che una cosa è bellissima e che ha un
valore, ma bisogna venirne fuori. A me piaceva molto poi l’idea che ci fosse
Fripp, la citazione del musicista, ed io non a caso gli ho dato una voce che sembra
un po’ da anziano, molto sussurrata. C’è un qualcosa che ha a che fare con il
passato, la morte, la chiusura di un affetto…
Zeno Gabaglio che impreziosisce i tuoi live. Come ti trovi con lui?
Zeno per un po’ di tempo è stato la mia coscienza. Io stavo suonando con Francesca Ruffilli al violoncello, che era la mia fidanzata tra le altre cose. Finita la storia poi c’è stato un periodo di vita e musicale molto complicato con lei, che ha continuato a suonare con me per un po’. Il passaggio è stato arrivare a qualcosa di più professionale, qualcosa che esulasse un pochino da rapporti troppo personali. Questa era un po’ l’idea che mi suggeriva Teho (Teardo) in quel momento. Quindi ora Zeno sostituisce il quartetto e tutto quello che Theo ha messo in “Alone”.