I Quintorigo sono una gloriosa formazione con tre lustri di storia alle spalle, caratterizzata da un approccio sempre molto originale con la musica, sia per i generi che ha frequentato, sia per l’organico davvero atipico. Si approccia ora ad uno dei maggiori innovatori della chitarra rock - Jimi Hendrix (senza peraltro utilizzare chitarre né su disco, né dal vivo). Ho incontrato Valentino Bianchi in una calda serata milanese, per una bella chiaccherata nei camerini del carroponte...
I Quintorigo nascono nel 1996 ed hanno subito incuriosito per la particolarità degli strumenti utilizzati - violino, violoncello, contrabbasso, sassofoni e voce: com’è nata l’idea di una formazione così originale?Ci siamo trovati, siamo tutti amici e compagni di conservatorio. Non è stato deciso a tavolino l’organico della band. Abbiamo cominciato con questi strumenti atipici, ed una formazione “handicappata” rispetto ad una rock band, ad arrangiare qualche brano rock storico dei Beatles e di David Bowie e ci siamo resi conto che questo gap poteva in realtà essere qualcosa di originale. Era una sfida che ci obbligava a lavorare molto sugli arrangiamenti dal punto di vista ritmico e armonico e alla fine questo è diventato il punto di forza della band che non ha mai modificato il proprio organico. Pur avendo cambiato diversi vocalist, siamo sempre rimasti noi quattro a far funzionare i pezzi e poi a scriverne di nostri.
Avete tutti una formazione classica e in questi 16 anni di attività avete seguito diverse direzioni: dalle partecipazioni a Sanremo (sempre con pezzi non sanremesi) ai festival jazz con il progetto dedicato alle musiche di Charles Mingus. Dove avete trovato maggiori soddisfazioni?
Le soddisfazioni le abbiamo vissute quotidianamente, come le insoddisfazioni, le piccole frustrazioni e le amarezze. Se dovessi dire qual’è stato il momento più appagante di questi tre lustri di storia sicuramente direi il lavoro su Mingus. Entrare nel mondo del jazz importante e ricevere inaspettatamente un premio, poi fare un tour calcando il palco con dei mostri sacri come Maria Pia De Vito, Antonello Salis, Enrico Rava, etc. per noi è stata un po’ un’avventura.
Però grandi emozioni le abbiamo vissute spesso, fin dalle origini, quando ci esibivamo nei piccoli pub della Romagna e, da un momento all’altro, siamo entrati nella ribalta luccicante e dorata di Sanremo. È stata un’esperienza, con i suoi aspetti negativi, altamente formativa e importante per noi. Momenti belli e brutti ci sono stati sempre, e ci sono tuttora, anche questa sera. Viviamo dei palchi emozionanti, soprattutto quando proponiamo qualcosa di nuovo, poi, piano piano, a volte ci si adagia. Per questo abbiamo bisogno di sfornare sempre cose nuove,di pensare a cosa faremo il prossimo anno. Siamo vulcanici e iperattivi e questo significa essere ancora giovani, nonostante l’età anagrafica.
In quasi tutti i vostri dischi ci sono dei pezzi (soprattutto rock) rielaborati nello stile quintorigo. Ricordo highway star, heroes, clap hands, redemption song, invisible sun… Come decidete quali pezzi inserire e perché avete sempre avuto questo vezzo di cimentarvi con questi mostri sacri?
Perché esistono i classici e perché è giusto “mettersi a dialogare con loro” come diceva Petrarca. Nel terzo millennio il musicista, secondo me, come minimo deve avere la consapevolezza del proprio passato. Non può prescindere da 50-100 anni di musica, deve conoscere Bach, Bob Marley, Stravinsky, Charlie Parker, Mingus ma anche Beethoven…. Dopodiché essere creativi con tutto questo illustre passato è molto difficile. Forse un approccio un pochino più facile è prendere i classici e reinterpretarli magari contaminando. La filosofia di lavoro dei Quintorigo è proprio nata così, all’insegna della contaminazione di un patrimonio immenso e bellissimo che c’è alle nostre spalle ed abbiamo studiato. Forse modernità ed originalità, veramente difficili da trovare oggi, consistono proprio nel rielaborare un passato meraviglioso. I Quintorigo nascono da un atteggiamento di grande umiltà: prendere ad esempio Mozart e fonderlo con Jimi Hendrix o suonare un brano di Hendrix ripescando un preludio di Bach, “ficcandocelo dentro” perché magari ci sta per giro armonico, senza dimenticare però le caratteristiche che devono essere insite in uno spettacolo: potenza del suono ed espressione di sincerità, dell’essere anche sanguigni e veri sul palco. Non facciamo il quartetto d’archi che reinterpreta Hendrix in punta di arco. Noi vogliamo anche ripescare il messaggio ideologico dell’artista che,in questo caso, era appunto rivoluzionario, distruttivo, potente. Abbiamo cercato di farlo con Hendrix ma anche con Mingus. Ripensandoci, tutto l’approccio nostro alle cover è sempre stato storicizzato, studiando anche le implicazioni sociologiche,gli aspetti ideologici e psicologici dell’artista.
Qual è la sfida più grossa nell’interpretare dei brani storici e metterci del proprio?
La sfida più grossa è sempre in relazione alla particolare natura del nostro ensemble che manca di motore ritmico e di uno strumento armonico. La sfida è sempre molto tecnica: dobbiamo imprimere una pulsione ritmica senza qualcuno con le bacchette in mano e dare un senso di pienezza armonica senza un pianoforte e una chitarra. Senza nulla togliere a Hendrix, che suona bene anche con due accordi e una chitarra, il lavoro su Mingus ad esempio è stato un lavoro di riduzione e di sublimazione, perché le sue composizioni sono mastodontiche. Mentre per Hendrix abbiamo dovuto arricchire ed ampliare le sue armonie. La sfida in definitiva è sempre imprimere il tiro ritmico ad una canzone senza batteria, senza chitarra elettrica, senza basso elettrico e senza un pianoforte.
Vi ho visto dal vivo diverse volte e la formazione è sempre stata la stessa per 4/5. Alla voce invece ho avuto il piacere di apprezzare tanti splendidi vocalists. La sensazione è che lo strumento voce, che agli inizi era molto importante, pur utilizzando degli ottimi professionisti, si sia progressivamente ridimensionato…
Noi viviamo nel paese del bel canto quindi, per ragioni storiche culturali e antropologiche, la voce è diventata lo strumento preponderante ma, in realtà, nasce come strumento musicale. I primi nostri esperimenti erano proprio volti a questa ricerca: integrare la voce in un ensemble di strumenti musicali, facendo in modo che contribuisse all’arrangiamento, che fornisse una pulsione ritmica, un arricchimento armonico e cantasse le melodie. Nel tempo ci siamo abituati ad essere identificati con un determinato tipo di cantante, tra l’altro molto dotato e talentuoso. Con lui abbiamo scritto l’inizio della nostra storia, quindi tutto il nostro rispetto a John (De Leo). Quando, per una serie di motivi, ci siamo trovati senza di lui, abbiamo rielaborato l’idea di band con voce. Una band può anche esistere senza voce. Spesso i cantanti sono affetti da complessi psicologici di megalomania, egocentrismo, sopraffazione del prossimo… primedonne anche quando sono uomini. A questo punto della nostra storia, senza voler dimostrare niente, abbiamo pensato di ricorrere a voci diverse a seconda del progetto che stiamo approcciando. Se suoniamo un progetto su Mingus ci può essere un ospite cantante di jazz. Abbiamo scelto ed avuto la fortuna di avere prima Luisa Cottifogli, poi forse la migliore in assoluto, Maria Pia De Vito, con la quale ancora collaboriamo. Nel caso di un disco di inediti abbiamo cercato un ragazzo di Roma molto creativo: Luca (Sapio) spostandoci in una dimensione più contaminata tra il soul e il grounge. Per il progetto su Hendrix abbiamo cercato una voce che gli si avvicinasse anche come approccio culturale e,avendo trovato Moris (Pradella), siamo contentissimi. In definitiva i Quintorigo sono quattro musicisti ed hanno come ospiti cantanti diversi, anche illustri, che sicuramente li arricchiscono. In Italia legando molto l’immagine della band a quella del cantante solista purtroppo, a livello mediatico, è difficile farlo capire.
Ho la sensazione che non amate molto internet. Non avete più un sito ufficiale, la vostra pagina su wikipedìa è piuttosto povera e non siete molto attivi sui social network. pensate che il vostro pubblico sia più interessato alle cose concrete ed abbia poco tempo da dedicare a questi strumenti?
Facciamo ammenda per questa nostra pigrizia nei confronti del canale più importante in assoluto di veicolazione ed autopromozione che è proprio internet. Ogni volta ci proponiamo di svecchiare, aggiornare, però, in questo senso, siamo più artisti che promotori di noi stessi. Essendo ragazzi del secolo scorso a volte non riusciamo a ragionare con le logiche attuali, anche se siamo convinti che si dovrebbe farlo.
Il 27 novembre Jimi Hendrix avrebbe compiuto 70 anni. È una ricorrenza significativa ma non credo sia l’unico motivo per questo vostro nuovo progetto. com’è nata l’idea e cosa rappresenta per voi?
Purple Haze, insieme ad un paio di brani dei Beatles è la prima cover che ci siamo messi a suonare. Abbiamo iniziato con quella perche è un brano semplice ed efficace, che avevano già arrangiato i Kronos Quartet, uno dei nostri riferimenti musical. Sono passati tantissimi anni e noi abbiamo continuato a suonarla con ogni cantante, anche donna, e in versione strumentale. Insomma è un po’ il leitmotiv della nostra storia. Il progetto Hendrix in realtà era già stato ipotizzato anni fa, siamo sempre stati attratti tutti da questo personaggio ed ora finalmente possiamo rendergli questo tributo. Volevamo elaborare un disco ed uno spettacolo “teatrale” su un gigante musicale del secolo scorso che, in soli tre-quatttro anni di carriera, ha lasciato un segno indelebile, rivoluzionando il modo di suonare la chitarra. La sua musica è semplice rispetto a tanti altri compositori, ha una matrice forte di blues che noi cerchiamo di far sentire nei nostri spettacoli, creandoci sopra un suo linguaggio, semplice ma felice. Un ragazzino che ha cambiato la storia della musica e forse, inconsapevolmente, quando ha suonato l’inno americano a Woodstock, è diventato la colonna sonora di un’America, meravigliosa e putrida al tempo stesso, contribuendo alla storia e alla cultura della propria nazione. Quando uno pensa alla guerra del Vietnam vede Hendrix che suona l’inno americano, prima ancora di pensare a Kubrick, a Platoon o ad Apocalipse Now. Sono messaggi fortissimi ed attualissimi che anche un pubblico di teenager può ripescare ed assimilare attraverso la musica.
Nel disco ci sono diversi brani in cui canta Eric Mingus, non proprio l’ultimo arrivato. Immagino che il contatto si sia sviluppato a seguito del progetto sulle musiche di suo padre…
Abbiamo cercato un link tra questi due lavori che sono complementari e sequenziali. Mingus e Hendrix sono due personaggi non più di tanto distanti. Hendrix era adorato da alcuni colossi del jazz, ad esempio Miles Davis. Ci siamo resi conto che il figlio di Mingus è un grande musicista ed un cantante bravissimo, soprattutto un bluesman che a volte canta anche Hendrix. L’abbiamo contattato via mail, da musicista a musicista, mandandogli il lavoro che abbiamo fatto sul padre. A lui è piaciuto tantissimo e si è dichiarato incondizionatamente disponibile a collaborare con noi a titolo gratuito, nella speranza di riuscire a fare qualcosa dal vivo. Da questo approccio sono nati 5 brani del disco, cioè quasi metà del cd l’ha cantato Eric sentendoci solo via skype e via mail. E’ stato molto bello ed appagante conoscere questa persona e trovarla così ben disposta, nel nome del padre, ma anche nel nome del blues e della vera musica.
Non conoscevo Moris Pradella ma, da ciò che ho sentito ha una splendida voce. Dove lo avete scovato?
Come spesso accade, tramite amicizie comuni. Il nostro fonico conosceva questo cantante di Mantova che aveva già fatto cose relativamente importanti. Ci è piaciuto, l’abbiamo invitato dalle nostre parti prima di tutto a mangiare e bere, come da tradizione romagnola, per fare amicizia. Poi abbiamo preso gli strumenti e provato a fare qualcosa. Da lì con massima serenità e tranquillità è nata una collaborazione che ci piace molto anche a livello umano. Si è studiato i brani, facendoci risparmiare tempo e tutto sta funzionando a gonfie vele. E’ un musicista colto, con alle spalle 8 anni di pianoforte, 5 anni di composizione e suona benissimo la chitarra. Ha preso questo incarico con grande umiltà e professionalità, ma in lui c’è anche l’aspetto ludico e gioviale del musicista unito ad una grande presenza scenica. L’ultima prova a cui l’abbiamo sottoposto questa estate è stata imparare il repertorio dei Quintorigo in pochissimi giorni per una serata in cui Luca Sapio aveva altri impegni. Moris è riuscito ad imparare una decina di brani, anche molto ostici, solo con una prova, come li conoscesse da una vita. E’ davvero un elemento che ci vogliamo tenere stretto…
Cosa c’è nel futuro dei quintorigo?
Il 27 novembre ci sarà finalmente la pubblicazione di questo disco dopo una lunga attesa in seguito ad una gestione molto restrittiva del nulla osta che doveva arrivare da parte della fondazione che fa capo alla sorella ed al cugino di Hendrix. Tra poco partiremo quindi con la promozione del disco, dopodiché inizieremo a scrivere qualche cosa di inedito e ci cimenteremo magari anche con Moris. Abbiamo comunque altre idee: ad esempio stiamo lavorando alle musiche di “Pierino e il Lupo”, che abbiamo già eseguito con Ivano Marescotti l’anno scorso. Stiamo cercando l’approccio con altri attori per esplorare questa dimensione più teatrale e contemporanea. Ci è arrivata anche la proposta di una sorta di tributo a Paolo Conte con Kruger dei Nobraino. La stiamo valutando perché l’autore ci piace molto. Magari un giorno arriveremo a fare un disco solo strumentale ed uno spettacolo dal vivo dove commenteremo le immagini di film d’autore o documentari. Al momento sono solo idee ma si potrebbero concretizzare.
james cook was here!
Valentino Bianchi - Sax
Andrea Costa - Violino
Gionata Costa - Violoncello
Stefano Ricci – Contrabbasso
*grazie a Francesco Telandro per le foto.
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