giovedì 12 settembre 2013

a cuore aperto: il capitano cook incontra paolo benvegnù

paolo benvegnù è un “artigiano della musica” che, con dolcezza e grande sensibilità, da oltre vent’anni, parla di sentimenti che appartengono alla vita di ognuno di noi. l’ho incontrato in una sera d’agosto, prima e dopo un suo concerto a como. è stata un’autentica emozione essere lì a condividere il suo mondo fatto di conquiste, ma anche di fragilità, in cui la musica è stata e rimane la sua ancora di salvezza.
hai iniziato ad occuparti di musica più di 20 anni fa e nel frattempo il mondo musicale è cambiato notevolmente. come hai vissuto questa evoluzione?
più che un’evoluzione, direi piuttosto un’involuzione, in quanto ho l’impressione che stiamo sempre un po’ girando intorno. gli strumenti sono quelli, nel campo delle canzoni si parla sempre delle stesse cose: la vita la morte, la presenza l’assenza, l’amore, di cosa devi parlare? forse vent’anni fa tutto era un po’ più genuino, semplicemente perché, visto che, come gli alberi, come la terra, siamo stratificazione di cose, vent’anni fa c’erano meno strati, ma ha a che vedere con il tempo, non tanto con il talento. ci sono persone che lo fanno meravigliosamente, altre lo fanno meno bene, ma quello che succede nella musica è ininfluente ai fini dell’umanità. ritengo che tutti i cambiamenti sociologici e di costume abbiano poco a che vedere con la vera grande importanza di fare qualcosa. siamo gettati in questo mondo e non sappiamo come cavarcela, io ho trovato la musica come scialuppa ed anche come ancora di salvataggio…
sei nato a milano e l'hai abbandonata per sfuggire al suo stile di vita. hai lasciato il lago di garda anche per allontanarti dalle idee leghiste. dove vivi ora ti senti in sintonia o mediti qualche altro spostamento, magari all'estero?
penso che i luoghi rappresentino un po’ anche quello che sei tu. io non mi sono mai trovato per parecchio tempo, perciò il problema era più che altro dentro di me. credo sia più facile trovarsi in un territorio dove la musica viene considerata cultura, piuttosto che business. la differenza tra siena, arezzo, firenze e milano è anche un po’ questa. qui la musica viene percepita più come tale, a milano c’è sempre questa finalizzazione delle cose, anche se non è sempre business. nel mio caso non ci sono mai riusciti, non per bravura, piuttosto perché non sono in grado di produrre business con quello che faccio – e meno male… non è una ricerca la mia, non sono capace di scrivere canzoni gradite da tutti. a dir la verità, è già una sorpresa che qualcosa che faccio piaccia a qualcuno, un privilegio fin troppo grande per me. sicuramente mi trovo più in sintonia in un territorio in cui le case del popolo sono ancora tessuto connettivo tra giovane e anziano, piuttosto che bar da aperitivi, mi interessa meno…

hai prodotto tanti dischi di atri artisti. a parte l’aspetto economico, cosa ti spinge a mettere a disposizione di musicisti, generalmente più giovani di te, la tua esperienza e le tue capacità?
beh, l’aspetto economico un pochino mi da una mano a fare di questa meravigliosa passività una possibilità di sopravvivenza, per quanto molto risicata. negli anni, quest'attività è diventata un privilegio assoluto, arrivato così, senza pensarci. normalmente cerco di estendere questo stupore alle persone che sono agli inizi, per certi versi è anche propedeutico. c’è da dire che questo è un lato del mio carattere non prettamente positivo. chi sono io per dire a qualcuno: “questa è la mia esperienza e anche per te sarà sicuramente così”. forse può aiutare, però sto ripensando anche a questo aspetto. in realtà, credo che ognuno dovrebbe fare propedeutica per sé. già mi sembra molto bello se riesco ad essere un componente in più del gruppo. non so quanto questo andrà avanti, è una delle caratteristiche che dovrei togliere dal mio meccanismo di produzione. comunque di dischi ne ho prodotti tanti in questi anni, anche in situazioni divertenti, incontrando persone magnifiche. sono stato fortunato, nella maggior parte dei casi ho lavorato con persone molto più brillanti di me.
qual è il tuo rapporto con questa società in cui sembra sia fondamentale essere sempre reperibili?
io coltivo la fantasia di sparizione, come idea della vita. non mi ci trovo tanto, ma semplicemente perché sono un uomo anziano, un uomo del novecento , con altre istanze. per me la cosa più importante è chiamarsi e trovarsi, noi. la reperibilità mi sembra un’ansia inutile, il mondo gira sempre senza nessun problema, con o senza di noi…
spesso nei tuoi brani si affronta il dolore ma la sensazione è che tu sia un ottimista, qualsiasi cosa succede trovi un motivo per andare avanti. è cosi?
leggevo oggi uno scritto del filosofo karl jaspers. lui vedeva amleto come qualcuno che sa, ma non ha le prove. un fantasma gli rivela che lo zio ha ucciso il padre e ne ha usurpato il trono, diventando re di danimarca. la sua reazione, nella quale mi ritrovo è che, per inerzia, lui ricerca la verità, ma quasi involontariamente, solo per il fatto di esistere. la sento mia perché non è un’azione di movimento, ma una scoperta delle piccole verità e delle piccole bugie che appartengono ad ognuno dei personaggi. però lui è sempre un po’ fermo, io invece sono più attonito, senza peraltro cercare la verità. forse l’unica sensazione in cui davvero mi identifico è che un po’ penso di sapere e un po’ di non poter sapere, che non mi sia dato sapere. guardo le cose per come sono, con grande tranquillità. perciò anche il dolore è così per me, c’è, si affronta, va via, torna. il tempo, come un oceano, continua a macinare assenza e presenza del dolore in te, è normale, penso...

sensazione che le scelte fatte nella tua vita siano guidate più dal cuore che dalla ragione. se in un progetto ci credi lo fai al limite anche gratis, altrimenti nessuna cifra potrebbe convincerti…
quello, ahimè , è un po’ vero. forse qualche volta avrei dovuto prendere certi treni per stare un po’ meglio. anche lì, però, è tutto da vedere se poi sarei stato all’altezza di rimanere a bordo, facendone parte realmente.
non so se definirle scelte di cuore, viste nell’ottica di qualche anno fa direi di si, ora comincio a pensare che le mie siano state anche scelte di auto sabotaggio, non tanto per paura, quanto per presunzione. a nulla serve essere intimamente e anche esteriormente colmi di umiltà, se poi nel profondo di noi c’è un narcisismo impressionante. penso di essere arrivato a questa consapevolezza. io mi sono auto sabotato un po’ per paura e un po’ per narcisismo. siamo qui apposta per cercare di capire se questo sia vero oppure no…
i tuoi pezzi parlano di sentimenti “senza tempo”, universali. hai mai sentito il desiderio di scrivere qualcosa strettamente legato all'attualità?
no, tanto più ora. mi sembra che negli ultimi 30 anni, la fine delle grandi ideologie abbia determinato un notevole appiattimento culturale. è come se il pensiero degli uomini fosse stato un po’ scardinato, diventando molto corto. poiché io penso senza tempo, non posso fare a meno di esprimere le mie intuizioni in questo modo. del resto, contemporaneamente, tanto per essere un po’ ambiguo, c’è una frase che mi è sempre piaciuta tantissimo, detta da un ex matematico che era in manicomio: "ho un grande bisogno di essere marginato". sentiamo la necessità di avere dei margini perché il nostro pensiero possa essere il più lungo possibile. non per dominare ciò che ci circonda, semplicemente perché deve essere ad ampio raggio. mi sembra assurdo parlare solamente di un aspetto delle cose, senza considerarne anche la profondità e l’altezza...

le tue canzoni trasmettono emozioni che acquistano un grande valore, annullando il tempo e le distanze. scrivi un pezzo oggi e magari tra vent'anni, chissà dove, qualcuno si emoziona...sei consapevole di questo transfert emotivo? cosa ne pensi?
quando scrivo una canzone devo sentirmi “appartenente a”, non necessariamente a me o ad una mia intuizione, semplicemente qualcosa che, passato attraverso me, acquista un’esistenza al di là di me. quando succede, ed è la quasi totalità dei casi, ho l’impressione di aver colto qualcosa d’importante, di esserne stato parte. e penso: “che bello!”, ma credo non ci sia differenza con chi ha questo tipo di sensazione costruendo un tavolo, accudendo un figlio, giocando a tennis…
mi stupisco che qualcun altro sia toccato, colpito da qualcosa per cui io faccio da tramite, perché conosco la mia grevità, il mio essere persona di terra.
sono troppo cerebrale per prendermi sul serio. paradossalmente, un albero potrebbe farlo, quando succhia linfa dalle radici e combatte contro quelle degli altri alberi. la vita di noi uomini, e parlo di me soprattutto, no. è bellissimo generare emozioni, da un lato sono felicissimo e lo nascondo in una nicchia, dall’altro devo completamente dimenticarlo. è spaventevole ciò che succede nel momento in cui pensi di avere un’importanza, hai finito di fare questa cosa, hai smesso. non dal punto di vista economico perché anzi, proprio gli intrattenitori hanno questa chiave, ma se tu vuoi farlo come un naufrago, abbandonandoti, perché così è la vita, allora non devi averne consapevolezza.
diverse artiste hanno reinterpretato alcune tue canzoni. cosa provi ascoltandole e quale ti è piaciuta di più?
la prima strofa di “io e te” cantata da mina, dove non c’è arrangiamento, mi sembra bella! mina è una donna che ha vissuto, amato, fatto figli… e questo si sente. è stato emozionante per tutto il significato della cosa. quando mi ha telefonato benedetta mazzini mi è venuto un mezzo coccolone: “a mia mamma piace un tuo pezzo”. la cosa mi ha ovviamente sconvolto, ma poi per me è finita lì.
in generale, penso che quando qualcuno scrive canzoni, se ha la fortuna che escano dalla sua stanza, non gli appartengono più, diventano patrimonio di tutti.

ti sarebbe piaciuto cantarla insieme a mina, invece di sentire solo la sua voce?
l’esperienza sarebbe stata fantastica, ma sono convinto che una canzone debba essere cantata da una persona sola. sono più contento che l’abbia interpretata lei, così come lo sono quando la canto io. non mi piacciono i duetti, né le collaborazioni, quelle un po’ appiccicate con il bostik, magari anche belle. io sono un monaco, riesco a condividere poche cose con una ristretta cerchia di persone, più di questo no. è un mio limite, ma forse anche una mia attitudine.
alcuni anni fa hai proposto una serie di spettacoli musical-teatrali denominati “trilogia dei lavori umili” (idraulici-marinai-camerieri). anche quando canti sembra che rivendichi il tuo essere una “persona normale”, un artigiano più che un artista…
ora ti dico una cosa: tutti i comunicati stampa dei benvegnù, fin dal primo, li ho scritti io. ovviamente molti credevano che fossi un “alfiere dell’ipersensibilismo europeo, che venisse dall’ipersensibilismo internazionale di charles f. brikowsky, dal suo libro ‘salutami washington’…”. in realtà, mi inventavo tutto per vedere se i giornalisti controllavano le fonti e diciamo che l’80% non lo faceva. la storia della “trilogia dei lavori umili”, come la “trilogia del tessuto”, è una gran stronzata, inventata per vedere se finalmente qualcuno veniva da me a dirmi: “oh, ma che cazzo stai dicendo?”.
in realtà quelle piccole pièces divertenti servivano a metterci fuori dal contesto del palcoscenico, un rito che ormai ha 70 anni ed aveva forse un senso nel 1965 allo shea stadium con i beatles. stasera, a como, è un rituale che ha perso quel significato, come è giusto che sia. l’idea interessante poi era questa: gli spettacoli prendevano strade diverse, ma il finale era sempre quello: il più piccolo di noi, andrea franchi, ci uccideva tutti e poi pronunciava la fatidica frase, mangiando pop corn: “non posso sopportare tutto il peso del mondo sulle mie spalle” e finiva strozzato proprio da quei pop corn, idea, secondo me, geniale. il senso è: perché ci lambicchiamo il cervello ogni giorno, di quali ansie ci carichiamo, nel momento in cui, in fondo qualsiasi cosa, anche un pop corn, può distruggere la sua costruzione avvenuta per distruzione degli altri ?!…
sono tre spettacoli e se ne facessi altri, lo giuro, il finale sarà sempre quello. (risate)

si può fare musica leggera “profonda”, senza mischiarsi con l’intrattenimento?
credo ci si possa anche divertire ascoltando musica dolcemente profonda. penso alla trilogia di italo calvino, racconti cupissimi, ma scritti quasi come fiabe. a me piacerebbe un giorno riuscire ad esprimere quel tipo di intuizione, anche se io mi scateno sulla tragedia, sono un eroe tragico in fondo.
una persona che ha unito profondo e leggero in Italia è stato franco battiato, “la voce del padrone” è un disco così, con grandi trasversalità.
fatico a trovare altre figure simili, alessandro fiori scrive così, mescolando quotidiano, personale e universale. anche andrea (franchi) a volte ci riesce, ma sono espressioni che hanno poca visibilità. negli ultimi 50-60 anni, da quando è l’occhio che comanda, vince chi ha una grancassa enorme e chi è fisicamente un figurino. io, tra l’altro, ho avuto anche delle chance per esserlo, ma, ovviamente, le ho sprecate tutte in carboidrati… (risate)
pensi sempre che una grande libertà sia indissolubilmente legata anche ad una grande solitudine?
riferendomi di nuovo a battiato, non lo conosco personalmente, ma ritengo che la sua sia una grande vita di condivisione solitaria, non molto lontana da quella di un monaco. credo sia un uomo, al di fuori della sua sfera personale, molto aperto verso gli altri. io faccio molta più fatica in questo senso, oltre a non potermi paragonare minimamente a lui per conoscenze ed idee.
per me libertà è sinonimo di solitudine e in sè già pone un limite al concetto stesso di libertà. la solitudine intesa come dice montaigne, vissuta nella torre eburnea, credo sia pericolosa. per me, significa chiudersi stabilendo il conosciuto e lo sconosciuto, ne scaturisce, così, una lotta di limiti, una sorta di veto infinito a sé stessi. libertà è un concetto troppo difficile, io non riesco ancora a capirlo, perdonatemi…

una delle definizioni che hai dato di hermann è “colonna sonora di un film mai girato”. sapendo che sei un grande appassionato di cinema, ti piacerebbe scrivere una colonna sonora e, potendo scegliere, quale regista vorresti "commentare"?
mi piacerebbe, ma non ne sono in grado, sono più un uomo di parola che di musica. ho delle intuizioni, ma minime. però lavorerei volentieri con david lynch, lui ha una dote fantastica a mio parere, si lascia molto guidare dal caos, dal caso. mentre herzog è un consapevole, cioè scatena intenzionalmente il caos, lynch lo accetta, è un accettante. due figure così importanti con un approccio completamente diverso. adoro herzog per quello che dice e per come lo dice, ha girato delle opere cinematografiche profondamente sentite e ricreate, non lontano da tati, per la sua tremenda ricostruzione del vero. lynch invece si abbandona, in realtà non pensa, non sta rivelando il suo mistero, semplicemente non lo sa. mi piacerebbe fare qualcosa con lui ma , ovviamente, c’è già badalamenti che è infinitamente meglio di me.

cosa rappresenta per te il momento del concerto e che rapporto cerchi di instaurare con il pubblico?
sono troppo vergognoso e timido per cercare di instaurare un rapporto con il pubblico, perciò dico qualsiasi stronzata mi passi per la testa, come le luci di certe farmacie dove passano messaggi senza soluzione di continuità. quando canto dal vivo (a volte anche quando sono a casa), mi trasformo in una donna bellissima, è la mia essenza. potenzialmente, io sono una madre pazientissima, ed in quanto tale, suono con persone che da un lato accudisco e dalle quali, dall’altro, vengo stimolato. le famiglie funzionano soltanto perché c’è questo meccanismo di protezione e stimolazione continua l’uno verso l’altro, in fondo non così lontano dalle falangi romane che hanno conquistato il mondo e da quelle spartane che hanno fermato i persiani alle termopili.

a che punto è la scrittura del prossimo disco?
abbastanza in alto mare. ho scritto tanti pezzi e ne ho scelti 4-5. faccio fatica, nel tempo si alza la soglia dell’autocensura. delle intuizioni avute fino ad ora, alcune le ho portate in fondo che meglio di così non saprei fare. non credo che nella vita di un uomo ce ne possano essere ogni giorno di brillanti, non nella mia almeno.
se considero la mia partenza così greve, vicino al vuoto, fino ad ora ne ho avute già tantissime, sono arrivate cose che sinceramente non mi sarei mai aspettato. non si tratta ovviamente di successo, perché ci campo a malapena, parlo di una conquista di consapevolezza e da lì ho cominciato a svuotarmi. adesso, paradossalmente, è come se fossi tornato ad un altro stadio di vuoto, molto più armonico, un vuoto non di esclusione… ma di appartenenza.
il grosso problema per la scrittura del prossimo disco è che, quando arriva questo stadio, c’è talmente un senso di pienezza che non vorresti condividerlo con nessuno.
mi sembra tutto: “questo l’ho già detto” e “questo perché devo dirlo?”
il problema è che, in tantissimi casi, muore l’energia primigenia e diventa mestiere.
ho sentito, ad esempio, alcuni degli ultimi pezzi di david bowie e mi sembrano molto validi, ma il disco è stato pubblicato a dieci anni dal precedente.
il senso è che se io non pubblico un album entro il prossimo anno, scompaio definitivamente, e già non esisto. i benvegnù, dal punto di vista della micro sopravvivenza quotidiana non esistono. quindi: scrivo un disco, perché devo scrivere un disco. negli ultimi tre anni ho messo in fila tutta una serie di intuizioni, secondo me molto importanti, ma che stanno nell’indicibile: come posso spiegare che finalmente dopo 45 anni vissuti in rincorsa, riesco a vedere una giornata senza nessun tipo di ansia, dall’alba al tramonto, e la notte la vivo per com’è, senza tormenti? potrei dirlo ma non ci riesco, perché sta nella sfera personale.
tornando a bowie, ci ha messo dieci anni a fare un disco, ha detto delle cose importanti e i pezzi che ho sentito sono bellissimi. anche se raccontano del quotidiano, dietro hanno tutto un concepire l’esistenza che si sente, pur parlando di una persona.
non bisognerebbe forzare i tempi, ma questo è un momento in cui esisti se fai, non esisti se sei. perciò, quello che sto cercando io in questo momento, è soprattutto essere, ed ogni tanto fare. credimi è uno sforzo per me difficile, penso sia un’evoluzione del mio esistere il fatto di non di avere l’urgenza di dire niente, perché tutto è già palese.
lo so, in fondo è bello, ma è solo una frase di una strofa appartenente ad un pezzo. è bello ma finisce lì, dura cinque secondi…

como, 14.08.13 james cook was here!

*grazie ad ellebi per il prezioso aiuto.

**grazie a starfooker per le splendide foto! 

***intervista apparsa sul #9 di just kids.

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