raggiungo il teatro martinitt in una serata fredda e nebbiosa che sembra uscita da un romanzo di dickens. sono, invece, alla periferia di milano (che comunque di freddo e nebbia ne sa qualcosa), a due passi dalla tangenziale est, dove, dal 28 al 30 gennaio, la musica dal vivo è protagonista con il sound & comfort winter festival.
l’essenza di questa interessante 3 giorni musicale mi è stata spiegata da teodoro roma, dell'associazione culturale golden stage, che ha curato l'evento: "trovandomi a passare davanti al martinitt, (luogo semisconosciuto, restaurato da poco, già teatro dell’ex orfanotrofio omonimo) mi sono innamorato della suggestione dell'edificio che ho immaginato come location ideale per eventi live. da qui l'idea di una rassegna musicale che, per motivi di budget, è stata ridotta quest'anno a 3 date consecutive, concepite come un vero festival. vista la capienza limitata dei posti a sedere,la nostra ricerca si è indirizzata verso nomi emergenti, che avessero però un minimo comune denominatore: l’indubbia qualità del progetto musicale e la propensione dello stesso ad esprimersi in una dimensione teatrale. per rendere il tutto più accattivante, la scelta è ricaduta sulla formula del double bill: due artisti, due band, ogni sera a dividersi il palco. una soluzione che ha decisamente incontrato il favore del pubblico facendoci ben sperare nella possibilità, anche in un prossimo futuro, di presentare nuovamente un'analoga proposta”.
chi scrive, comodamente seduto nella sua poltroncina rossa, il 30 gennaio si è goduto il terzo ed ultimo appuntamento, che vedeva protagonisti, rispettivamente, dimartino e thony. eccovi, di seguito, il racconto di come ho vissuto la serata.
l’essenza di questa interessante 3 giorni musicale mi è stata spiegata da teodoro roma, dell'associazione culturale golden stage, che ha curato l'evento: "trovandomi a passare davanti al martinitt, (luogo semisconosciuto, restaurato da poco, già teatro dell’ex orfanotrofio omonimo) mi sono innamorato della suggestione dell'edificio che ho immaginato come location ideale per eventi live. da qui l'idea di una rassegna musicale che, per motivi di budget, è stata ridotta quest'anno a 3 date consecutive, concepite come un vero festival. vista la capienza limitata dei posti a sedere,la nostra ricerca si è indirizzata verso nomi emergenti, che avessero però un minimo comune denominatore: l’indubbia qualità del progetto musicale e la propensione dello stesso ad esprimersi in una dimensione teatrale. per rendere il tutto più accattivante, la scelta è ricaduta sulla formula del double bill: due artisti, due band, ogni sera a dividersi il palco. una soluzione che ha decisamente incontrato il favore del pubblico facendoci ben sperare nella possibilità, anche in un prossimo futuro, di presentare nuovamente un'analoga proposta”.
chi scrive, comodamente seduto nella sua poltroncina rossa, il 30 gennaio si è goduto il terzo ed ultimo appuntamento, che vedeva protagonisti, rispettivamente, dimartino e thony. eccovi, di seguito, il racconto di come ho vissuto la serata.
poco dopo le 21 le luci si spengono, gli artisti raggiungono la loro postazione sul palco. sulle note di venga il tuo regno, un antonio di martino insolitamente barbuto, dà il via alla serata. i suoni sono ben calibrati e i musicisti, abituati a suonare in club di piccole e medie dimensioni, quasi appaiono meravigliati di esibirsi in un palco che offre loro tutto quello spazio. rispetto alle più recenti date milanesi a cui ho partecipato, nella scaletta noto che trova spazio qualche brano in più tratto dal primo album cara maestra abbiamo perso. l’atmosfera è meno rock, quasi si tratti di una forma di rispetto per l’approccio elegante che il teatro suggerisce. antonio di martino si alterna al basso elettrico, strumento che a lui piace moltissimo suonare, e alla chitarra acustica, che diventa protagonista nei momenti più raccolti (maledetto autunno, io non parlo mai, ormai siamo troppo giovani – tutte dal fortunato disco del 2012 sarebbe bello non lasciarsi mai...)
è una formazione essenziale la sua, ma con due grandi virtuosi che la impreziosiscono.
è una formazione essenziale la sua, ma con due grandi virtuosi che la impreziosiscono.
angelo trabace è spesso in evidenza alle tastiere. penso in proposito a pezzi come la penultima cena, con una parte quasi ballabile (nel presentarla antonio ci raccomanda di “muovere i culi”, anche se siamo seduti) e cara maestra abbiamo perso, che ci viene proposta con un nuovo, bellissimo, arrangiamento “electro”. giusto correnti trasforma la batteria in un’autentica macchina del ritmo, davvero impressionante da osservare ed ascoltare nei momenti più tirati. la carica dei brani di dimartino, forte e diretta, colpisce il pubblico entusiasmandolo. nelle storie di questo giovane artista, raccontate come fossero dei “corti” di cinema, c’è un mondo che, partendo dalla sicilia, per la sua attualità ed intimità, arriva a riscaldare i cuori anche in questa fredda città del nord.
si conclude così la prima parte della serata che ci ha offerto tre musicisti in grado, per abilità tecnica e “cuore” di entrare in profonda sintonia con il pubblico in sala. non a caso, mi hanno poi confessato che suonare in queste condizioni (silenzio e massima attenzione da parte dei presenti), anche per loro è stato particolarmente appagante ed emozionante.
la seconda parte dello spettacolo vede in scena federica victoria caiozzo, in arte thony, con l’inseparabile chitarra acustica. la guardo prendere postazione sul palco e, immediatamente, mi torna in mente la fragile ed intensa antonia protagonista recente del film tutti i santi giorni, di paolo virzì, alla quale victoria ha prestato la figura con riconosciuta bravura. la giovane cantautrice di origini siculo-polacche riparte proprio da milano con il suo tour invernale; da subito riesce a creare un’atmosfera piacevole, leggera ed intima, proponendo brani dal suo recente secondo disco birds, parte dei quali inseriti anche nella colonna sonora del lungometraggio di virzì.
thony, con dolcezza, ci accompagna alla scoperta di un mondo delicato, denso di brani acustici, evocativi, trame sonore indie folk impreziosite dalla presenza di ottimi musicisti. cesare petulicchio (bud spencer blues explosion) alla batteria, livia ferri (anche lei songwriter con un recentissimo album all’attivo) alle chitarre acustiche, matteo d’incà al basso e chitarra elettrica, leonardo milani (che ha già collaborato agli arrangiamenti del disco) al piano. in realtà, a seconda dei brani, gli strumenti sul palco si moltiplicano e le sensazioni che ne scaturiscono sono davvero speciali. la parte più consistente della scaletta è decisamente costituita da pezzi tratti da birds: scorrono uno dopo l’altro time speaks, promises, flowers blossom e home, il cui testo, in origine molto triste, l’autrice ci rivela essere stato variato per l’inserimento nel film.
voce eterea, arrangiamento essenziale piano e chitarra acustica, mentre ascolto “when we find our home again we are, we feel so young“ (quando troviamo di nuovo la via di casa siamo, ci sentiamo così giovani) non posso fare a meno di pensare che, per me, come sicuramente per molti altri, c’è qualcuno di importante che, per un motivo o per l’altro non ritroverà più la via di casa e, gli occhi, quasi quasi, diventano lucidi, così come, mi accorgo, succede anche alla ragazza che mi siede accanto.
voce eterea, arrangiamento essenziale piano e chitarra acustica, mentre ascolto “when we find our home again we are, we feel so young“ (quando troviamo di nuovo la via di casa siamo, ci sentiamo così giovani) non posso fare a meno di pensare che, per me, come sicuramente per molti altri, c’è qualcuno di importante che, per un motivo o per l’altro non ritroverà più la via di casa e, gli occhi, quasi quasi, diventano lucidi, così come, mi accorgo, succede anche alla ragazza che mi siede accanto.
seguono poi paper cup, deliziosa con il suo inizio “ahahah”, che mi ritrovo a canticchiare scandendo il tempo con le mani, dim light, quick steps, tutte assaporate ad occhi socchiusi, per lasciarmi meglio avvolgere dalle delicate melodie. qualche intermezzo acustico ed un paio di cover, tra cui little boxes, storico brano scritto da malvina reynolds e reso famoso da pete seeger, fino ad arrivare all’unica canzone veramente rock del set, sam, che thony presenta ammettendo di aver scritto una “canzone stupida”. in questo caso la chitarra diventa elettrica, la batteria picchia forte, la voce esce con grinta. dopo questo intermezzo si torna di nuovo a sognare con le ormai familiari atmosfere struggenti, arrivando alla chiusura della performance con l’intenso incedere strumentale di blue wolf e la malinconica water.
thony appare visibilmente soddisfatta per l’attenzione e la risposta emotiva che il pubblico le ha riservato, al punto da dichiarare che è un vero lusso, oggi, suonare nei teatri. anche per me il bilancio è decisamente positivo: sicuramente un’esibizione convincente, che ravviva e colora di bellissime sfumature i brani del disco, già di per sé un lavoro di respiro internazionale, elegante e prezioso, tra i più riusciti nel panorama indie folk degli ultimi anni.
sono le 23:30, gli artisti lasciano il palco, il teatro velocemente si svuota. anche io lascio la mia comoda poltroncina rossa: mi aspetta di nuovo la notte milanese gelida e, forse, nebbiosa, ma porto con me una rassicurante consapevolezza: grazie alla musica, ancora una volta, son tornato a “nutrirmi” di emozioni e quindi di vita!
thony appare visibilmente soddisfatta per l’attenzione e la risposta emotiva che il pubblico le ha riservato, al punto da dichiarare che è un vero lusso, oggi, suonare nei teatri. anche per me il bilancio è decisamente positivo: sicuramente un’esibizione convincente, che ravviva e colora di bellissime sfumature i brani del disco, già di per sé un lavoro di respiro internazionale, elegante e prezioso, tra i più riusciti nel panorama indie folk degli ultimi anni.
sono le 23:30, gli artisti lasciano il palco, il teatro velocemente si svuota. anche io lascio la mia comoda poltroncina rossa: mi aspetta di nuovo la notte milanese gelida e, forse, nebbiosa, ma porto con me una rassicurante consapevolezza: grazie alla musica, ancora una volta, son tornato a “nutrirmi” di emozioni e quindi di vita!
grazie a chiara nicoli per le foto.
articolo pubblicato su mescalina.
Raggiungo il teatro Martinitt
in una serata fredda e nebbiosa che sembra uscita da un romanzo di
Dickens. Sono, invece, alla periferia di Milano (che comunque di freddo e
nebbia ne sa qualcosa), a due passi dalla tangenziale est, dove, dal 28
al 30 gennaio, la musica dal vivo è protagonista con il “Sound & Comfort Winter Festival”.
L’essenza di questa interessante 3 giorni musicale mi è stata spiegata da Teodoro Roma, dell'Associazione culturale Golden Stage, che ha curato l'evento: "Trovandomi a passare davanti al Martinitt, (luogo semisconosciuto, restaurato da poco, già teatro dell’ex orfanotrofio omonimo) mi sono innamorato della suggestione dell'edificio che ho immaginato come location ideale per eventi live. Da qui l'idea di una rassegna musicale che, per motivi di budget, è stata ridotta quest'anno a 3 date consecutive, concepite come un vero festival. Vista la capienza limitata dei posti a sedere,la nostra ricerca si è indirizzata verso nomi emergenti, che avessero però un minimo comune denominatore: l’indubbia qualità del progetto musicale e la propensione dello stesso ad esprimersi in una dimensione teatrale. Per rendere il tutto più accattivante, la scelta è ricaduta sulla formula del double bill: due artisti, due band, ogni sera a dividersi il palco. Una soluzione che ha decisamente incontrato il favore del pubblico facendoci ben sperare nella possibilità, anche in un prossimo futuro, di presentare nuovamente un'analoga proposta”.
Chi scrive, comodamente seduto nella sua poltroncina rossa, il 30 gennaio si è goduto il terzo ed ultimo appuntamento, che vedeva protagonisti, rispettivamente, Dimartino e Thony. Eccovi, di seguito, il racconto di come ho vissuto la serata.
Poco dopo le 21 le luci si spengono, gli artisti raggiungono la loro postazione sul palco. Sulle note di Venga il tuo regno, un Antonio Di Martino insolitamente barbuto, dà il via alla serata. I suoni sono ben calibrati e i musicisti, abituati a suonare in club di piccole e medie dimensioni, quasi appaiono meravigliati di esibirsi in un palco che offre loro tutto quello spazio. Rispetto alle più recenti date milanesi a cui ho partecipato, nella scaletta noto che trova spazio qualche brano in più tratto dal primo album Cara maestra abbiamo perso. L’atmosfera è meno rock, quasi si tratti di una forma di rispetto per l’approccio elegante che il teatro suggerisce. Antonio Dimartino si alterna al basso elettrico, strumento che a lui piace moltissimo suonare, e alla chitarra acustica, che diventa protagonista nei momenti più raccolti (Maledetto autunno, Io non parlo mai, Ormai siamo troppo giovani – tutte dal fortunato disco del 2012 Sarebbe bello non lasciarsi mai….)
E’ una formazione essenziale la sua, ma con due grandi virtuosi che la impreziosiscono.
Angelo Trabace è spesso in evidenza alle tastiere. Penso in proposito a pezzi come La penultima cena, con una parte quasi ballabile (nel presentarla Antonio ci raccomanda di “muovere i culi”, anche se siamo seduti) e Cara maestra abbiamo perso, che ci viene proposta con un nuovo, bellissimo, arrangiamento “electro”. Giusto Correnti trasforma la batteria in un’autentica macchina del ritmo, davvero impressionante da osservare ed ascoltare nei momenti più tirati. La carica dei brani di Dimartino, forte e diretta, colpisce il pubblico entusiasmandolo. Nelle storie di questo giovane artista, raccontate come fossero dei “corti” di cinema, c’è un mondo che, partendo dalla Sicilia, per la sua attualità ed intimità, arriva a riscaldare i cuori anche in questa fredda città del nord. Il set musicale finirebbe con la splendida Non siamo gli alberi, ma il calore del pubblico lo convince a tornare sul palco per l’ultima e commovente Amore sociale.
Si conclude così la prima parte della serata che ci ha offerto tre musicisti in grado, per abilità tecnica e “cuore” di entrare in profonda sintonia con il pubblico in sala. Non a caso, mi hanno poi confessato che suonare in queste condizioni (silenzio e massima attenzione da parte dei presenti), anche per loro è stato particolarmente appagante ed emozionante.
La seconda parte dello spettacolo vede in scena Federica Victoria Caiozzo, in arte Thony, con l’inseparabile chitarra acustica. La guardo prendere postazione sul palco e, immediatamente, mi torna in mente la fragile ed intensa Antonia protagonista recente del film “Tutti i santi giorni”, di Paolo Virzì, alla quale Victoria ha prestato la figura con riconosciuta bravura. La giovane cantautrice di origini siculo-polacche riparte proprio da Milano con il suo tour invernale; da subito riesce a creare un’atmosfera piacevole, leggera ed intima, proponendo brani dal suo recente secondo disco Birds, parte dei quali inseriti anche nella colonna sonora del lungometraggio di Virzì.
Thony, con dolcezza, ci accompagna alla scoperta di un mondo delicato, denso di brani acustici, evocativi, trame sonore indie folk impreziosite dalla presenza di ottimi musicisti. Cesare Petulicchio (Bud Spencer Blues Explosion) alla batteria, Livia Ferri (anche lei songwriter con un recentissimo album all’attivo) alle chitarre acustiche, Matteo D’incà al basso e chitarra elettrica, Leonardo Milani (che ha già collaborato agli arrangiamenti del disco) al piano. In realtà, a seconda dei brani, gli strumenti sul palco si moltiplicano e le sensazioni che ne scaturiscono sono davvero speciali. La parte più consistente della scaletta è decisamente costituita da pezzi tratti da Birds: scorrono uno dopo l’altro Time Speaks, Promises, Flowers Blossom e Home, il cui testo, in origine molto triste, l’autrice ci rivela essere stato variato per l’inserimento nel film.
Voce eterea, arrangiamento essenziale piano e chitarra acustica, mentre ascolto “when we find our home again we are, we feel so young “ (quando troviamo di nuovo la via di casa siamo, ci sentiamo così giovani) non posso fare a meno di pensare che, per me, come sicuramente per molti altri, c’è qualcuno di importante che, per un motivo o per l’altro non ritroverà più la via di casa e, gli occhi, quasi quasi, diventano lucidi, così come, mi accorgo, succede anche alla ragazza che mi siede accanto.
Seguono poi Paper Cup, deliziosa con il suo inizio “ahahah”, che mi ritrovo a canticchiare scandendo il tempo con le mani, Dim Light, Quick Steps, tutte assaporate ad occhi socchiusi, per lasciarmi meglio avvolgere dalle delicate melodie. Qualche intermezzo acustico ed un paio di cover, tra cui Little Boxes, storico brano scritto da Malvina Reynolds e reso famoso da Pete Seeger, fino ad arrivare all’unica canzone veramente rock del set, Sam, che Thony presenta ammettendo di aver scritto una “canzone stupida”. In questo caso la chitarra diventa elettrica, la batteria picchia forte, la voce esce con grinta. Dopo questo intermezzo si torna di nuovo a sognare con le ormai familiari atmosfere struggenti, arrivando alla chiusura della performance con l’intenso incedere strumentale di Blue Wolf e la malinconica Water.
Thony appare visibilmente soddisfatta per l’attenzione e la risposta emotiva che il pubblico le ha riservato, al punto da dichiarare che è un vero lusso, oggi, suonare nei teatri. Anche per me il bilancio è decisamente positivo: sicuramente un’esibizione convincente, che ravviva e colora di bellissime sfumature i brani del disco, già di per sé un lavoro di respiro internazionale, elegante e prezioso, tra i più riusciti nel panorama indie folk degli ultimi anni.
Sono le 23:30, gli artisti lasciano il palco, il teatro velocemente si svuota. Anche io lascio la mia comoda poltroncina rossa: mi aspetta di nuovo la notte milanese gelida e, forse, nebbiosa, ma porto con me una rassicurante consapevolezza: grazie alla musica, ancora una volta, son tornato a “nutrirmi” di emozioni e quindi di vita!
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L’essenza di questa interessante 3 giorni musicale mi è stata spiegata da Teodoro Roma, dell'Associazione culturale Golden Stage, che ha curato l'evento: "Trovandomi a passare davanti al Martinitt, (luogo semisconosciuto, restaurato da poco, già teatro dell’ex orfanotrofio omonimo) mi sono innamorato della suggestione dell'edificio che ho immaginato come location ideale per eventi live. Da qui l'idea di una rassegna musicale che, per motivi di budget, è stata ridotta quest'anno a 3 date consecutive, concepite come un vero festival. Vista la capienza limitata dei posti a sedere,la nostra ricerca si è indirizzata verso nomi emergenti, che avessero però un minimo comune denominatore: l’indubbia qualità del progetto musicale e la propensione dello stesso ad esprimersi in una dimensione teatrale. Per rendere il tutto più accattivante, la scelta è ricaduta sulla formula del double bill: due artisti, due band, ogni sera a dividersi il palco. Una soluzione che ha decisamente incontrato il favore del pubblico facendoci ben sperare nella possibilità, anche in un prossimo futuro, di presentare nuovamente un'analoga proposta”.
Chi scrive, comodamente seduto nella sua poltroncina rossa, il 30 gennaio si è goduto il terzo ed ultimo appuntamento, che vedeva protagonisti, rispettivamente, Dimartino e Thony. Eccovi, di seguito, il racconto di come ho vissuto la serata.
Poco dopo le 21 le luci si spengono, gli artisti raggiungono la loro postazione sul palco. Sulle note di Venga il tuo regno, un Antonio Di Martino insolitamente barbuto, dà il via alla serata. I suoni sono ben calibrati e i musicisti, abituati a suonare in club di piccole e medie dimensioni, quasi appaiono meravigliati di esibirsi in un palco che offre loro tutto quello spazio. Rispetto alle più recenti date milanesi a cui ho partecipato, nella scaletta noto che trova spazio qualche brano in più tratto dal primo album Cara maestra abbiamo perso. L’atmosfera è meno rock, quasi si tratti di una forma di rispetto per l’approccio elegante che il teatro suggerisce. Antonio Dimartino si alterna al basso elettrico, strumento che a lui piace moltissimo suonare, e alla chitarra acustica, che diventa protagonista nei momenti più raccolti (Maledetto autunno, Io non parlo mai, Ormai siamo troppo giovani – tutte dal fortunato disco del 2012 Sarebbe bello non lasciarsi mai….)
E’ una formazione essenziale la sua, ma con due grandi virtuosi che la impreziosiscono.
Angelo Trabace è spesso in evidenza alle tastiere. Penso in proposito a pezzi come La penultima cena, con una parte quasi ballabile (nel presentarla Antonio ci raccomanda di “muovere i culi”, anche se siamo seduti) e Cara maestra abbiamo perso, che ci viene proposta con un nuovo, bellissimo, arrangiamento “electro”. Giusto Correnti trasforma la batteria in un’autentica macchina del ritmo, davvero impressionante da osservare ed ascoltare nei momenti più tirati. La carica dei brani di Dimartino, forte e diretta, colpisce il pubblico entusiasmandolo. Nelle storie di questo giovane artista, raccontate come fossero dei “corti” di cinema, c’è un mondo che, partendo dalla Sicilia, per la sua attualità ed intimità, arriva a riscaldare i cuori anche in questa fredda città del nord. Il set musicale finirebbe con la splendida Non siamo gli alberi, ma il calore del pubblico lo convince a tornare sul palco per l’ultima e commovente Amore sociale.
Si conclude così la prima parte della serata che ci ha offerto tre musicisti in grado, per abilità tecnica e “cuore” di entrare in profonda sintonia con il pubblico in sala. Non a caso, mi hanno poi confessato che suonare in queste condizioni (silenzio e massima attenzione da parte dei presenti), anche per loro è stato particolarmente appagante ed emozionante.
La seconda parte dello spettacolo vede in scena Federica Victoria Caiozzo, in arte Thony, con l’inseparabile chitarra acustica. La guardo prendere postazione sul palco e, immediatamente, mi torna in mente la fragile ed intensa Antonia protagonista recente del film “Tutti i santi giorni”, di Paolo Virzì, alla quale Victoria ha prestato la figura con riconosciuta bravura. La giovane cantautrice di origini siculo-polacche riparte proprio da Milano con il suo tour invernale; da subito riesce a creare un’atmosfera piacevole, leggera ed intima, proponendo brani dal suo recente secondo disco Birds, parte dei quali inseriti anche nella colonna sonora del lungometraggio di Virzì.
Thony, con dolcezza, ci accompagna alla scoperta di un mondo delicato, denso di brani acustici, evocativi, trame sonore indie folk impreziosite dalla presenza di ottimi musicisti. Cesare Petulicchio (Bud Spencer Blues Explosion) alla batteria, Livia Ferri (anche lei songwriter con un recentissimo album all’attivo) alle chitarre acustiche, Matteo D’incà al basso e chitarra elettrica, Leonardo Milani (che ha già collaborato agli arrangiamenti del disco) al piano. In realtà, a seconda dei brani, gli strumenti sul palco si moltiplicano e le sensazioni che ne scaturiscono sono davvero speciali. La parte più consistente della scaletta è decisamente costituita da pezzi tratti da Birds: scorrono uno dopo l’altro Time Speaks, Promises, Flowers Blossom e Home, il cui testo, in origine molto triste, l’autrice ci rivela essere stato variato per l’inserimento nel film.
Voce eterea, arrangiamento essenziale piano e chitarra acustica, mentre ascolto “when we find our home again we are, we feel so young “ (quando troviamo di nuovo la via di casa siamo, ci sentiamo così giovani) non posso fare a meno di pensare che, per me, come sicuramente per molti altri, c’è qualcuno di importante che, per un motivo o per l’altro non ritroverà più la via di casa e, gli occhi, quasi quasi, diventano lucidi, così come, mi accorgo, succede anche alla ragazza che mi siede accanto.
Seguono poi Paper Cup, deliziosa con il suo inizio “ahahah”, che mi ritrovo a canticchiare scandendo il tempo con le mani, Dim Light, Quick Steps, tutte assaporate ad occhi socchiusi, per lasciarmi meglio avvolgere dalle delicate melodie. Qualche intermezzo acustico ed un paio di cover, tra cui Little Boxes, storico brano scritto da Malvina Reynolds e reso famoso da Pete Seeger, fino ad arrivare all’unica canzone veramente rock del set, Sam, che Thony presenta ammettendo di aver scritto una “canzone stupida”. In questo caso la chitarra diventa elettrica, la batteria picchia forte, la voce esce con grinta. Dopo questo intermezzo si torna di nuovo a sognare con le ormai familiari atmosfere struggenti, arrivando alla chiusura della performance con l’intenso incedere strumentale di Blue Wolf e la malinconica Water.
Thony appare visibilmente soddisfatta per l’attenzione e la risposta emotiva che il pubblico le ha riservato, al punto da dichiarare che è un vero lusso, oggi, suonare nei teatri. Anche per me il bilancio è decisamente positivo: sicuramente un’esibizione convincente, che ravviva e colora di bellissime sfumature i brani del disco, già di per sé un lavoro di respiro internazionale, elegante e prezioso, tra i più riusciti nel panorama indie folk degli ultimi anni.
Sono le 23:30, gli artisti lasciano il palco, il teatro velocemente si svuota. Anche io lascio la mia comoda poltroncina rossa: mi aspetta di nuovo la notte milanese gelida e, forse, nebbiosa, ma porto con me una rassicurante consapevolezza: grazie alla musica, ancora una volta, son tornato a “nutrirmi” di emozioni e quindi di vita!
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Raggiungo il teatro Martinitt
in una serata fredda e nebbiosa che sembra uscita da un romanzo di
Dickens. Sono, invece, alla periferia di Milano (che comunque di freddo e
nebbia ne sa qualcosa), a due passi dalla tangenziale est, dove, dal 28
al 30 gennaio, la musica dal vivo è protagonista con il “Sound & Comfort Winter Festival”.
L’essenza di questa interessante 3 giorni musicale mi è stata spiegata da Teodoro Roma, dell'Associazione culturale Golden Stage, che ha curato l'evento: "Trovandomi a passare davanti al Martinitt, (luogo semisconosciuto, restaurato da poco, già teatro dell’ex orfanotrofio omonimo) mi sono innamorato della suggestione dell'edificio che ho immaginato come location ideale per eventi live. Da qui l'idea di una rassegna musicale che, per motivi di budget, è stata ridotta quest'anno a 3 date consecutive, concepite come un vero festival. Vista la capienza limitata dei posti a sedere,la nostra ricerca si è indirizzata verso nomi emergenti, che avessero però un minimo comune denominatore: l’indubbia qualità del progetto musicale e la propensione dello stesso ad esprimersi in una dimensione teatrale. Per rendere il tutto più accattivante, la scelta è ricaduta sulla formula del double bill: due artisti, due band, ogni sera a dividersi il palco. Una soluzione che ha decisamente incontrato il favore del pubblico facendoci ben sperare nella possibilità, anche in un prossimo futuro, di presentare nuovamente un'analoga proposta”.
Chi scrive, comodamente seduto nella sua poltroncina rossa, il 30 gennaio si è goduto il terzo ed ultimo appuntamento, che vedeva protagonisti, rispettivamente, Dimartino e Thony. Eccovi, di seguito, il racconto di come ho vissuto la serata.
Poco dopo le 21 le luci si spengono, gli artisti raggiungono la loro postazione sul palco. Sulle note di Venga il tuo regno, un Antonio Di Martino insolitamente barbuto, dà il via alla serata. I suoni sono ben calibrati e i musicisti, abituati a suonare in club di piccole e medie dimensioni, quasi appaiono meravigliati di esibirsi in un palco che offre loro tutto quello spazio. Rispetto alle più recenti date milanesi a cui ho partecipato, nella scaletta noto che trova spazio qualche brano in più tratto dal primo album Cara maestra abbiamo perso. L’atmosfera è meno rock, quasi si tratti di una forma di rispetto per l’approccio elegante che il teatro suggerisce. Antonio Dimartino si alterna al basso elettrico, strumento che a lui piace moltissimo suonare, e alla chitarra acustica, che diventa protagonista nei momenti più raccolti (Maledetto autunno, Io non parlo mai, Ormai siamo troppo giovani – tutte dal fortunato disco del 2012 Sarebbe bello non lasciarsi mai….)
E’ una formazione essenziale la sua, ma con due grandi virtuosi che la impreziosiscono.
Angelo Trabace è spesso in evidenza alle tastiere. Penso in proposito a pezzi come La penultima cena, con una parte quasi ballabile (nel presentarla Antonio ci raccomanda di “muovere i culi”, anche se siamo seduti) e Cara maestra abbiamo perso, che ci viene proposta con un nuovo, bellissimo, arrangiamento “electro”. Giusto Correnti trasforma la batteria in un’autentica macchina del ritmo, davvero impressionante da osservare ed ascoltare nei momenti più tirati. La carica dei brani di Dimartino, forte e diretta, colpisce il pubblico entusiasmandolo. Nelle storie di questo giovane artista, raccontate come fossero dei “corti” di cinema, c’è un mondo che, partendo dalla Sicilia, per la sua attualità ed intimità, arriva a riscaldare i cuori anche in questa fredda città del nord. Il set musicale finirebbe con la splendida Non siamo gli alberi, ma il calore del pubblico lo convince a tornare sul palco per l’ultima e commovente Amore sociale.
Si conclude così la prima parte della serata che ci ha offerto tre musicisti in grado, per abilità tecnica e “cuore” di entrare in profonda sintonia con il pubblico in sala. Non a caso, mi hanno poi confessato che suonare in queste condizioni (silenzio e massima attenzione da parte dei presenti), anche per loro è stato particolarmente appagante ed emozionante.
La seconda parte dello spettacolo vede in scena Federica Victoria Caiozzo, in arte Thony, con l’inseparabile chitarra acustica. La guardo prendere postazione sul palco e, immediatamente, mi torna in mente la fragile ed intensa Antonia protagonista recente del film “Tutti i santi giorni”, di Paolo Virzì, alla quale Victoria ha prestato la figura con riconosciuta bravura. La giovane cantautrice di origini siculo-polacche riparte proprio da Milano con il suo tour invernale; da subito riesce a creare un’atmosfera piacevole, leggera ed intima, proponendo brani dal suo recente secondo disco Birds, parte dei quali inseriti anche nella colonna sonora del lungometraggio di Virzì.
Thony, con dolcezza, ci accompagna alla scoperta di un mondo delicato, denso di brani acustici, evocativi, trame sonore indie folk impreziosite dalla presenza di ottimi musicisti. Cesare Petulicchio (Bud Spencer Blues Explosion) alla batteria, Livia Ferri (anche lei songwriter con un recentissimo album all’attivo) alle chitarre acustiche, Matteo D’incà al basso e chitarra elettrica, Leonardo Milani (che ha già collaborato agli arrangiamenti del disco) al piano. In realtà, a seconda dei brani, gli strumenti sul palco si moltiplicano e le sensazioni che ne scaturiscono sono davvero speciali. La parte più consistente della scaletta è decisamente costituita da pezzi tratti da Birds: scorrono uno dopo l’altro Time Speaks, Promises, Flowers Blossom e Home, il cui testo, in origine molto triste, l’autrice ci rivela essere stato variato per l’inserimento nel film.
Voce eterea, arrangiamento essenziale piano e chitarra acustica, mentre ascolto “when we find our home again we are, we feel so young “ (quando troviamo di nuovo la via di casa siamo, ci sentiamo così giovani) non posso fare a meno di pensare che, per me, come sicuramente per molti altri, c’è qualcuno di importante che, per un motivo o per l’altro non ritroverà più la via di casa e, gli occhi, quasi quasi, diventano lucidi, così come, mi accorgo, succede anche alla ragazza che mi siede accanto.
Seguono poi Paper Cup, deliziosa con il suo inizio “ahahah”, che mi ritrovo a canticchiare scandendo il tempo con le mani, Dim Light, Quick Steps, tutte assaporate ad occhi socchiusi, per lasciarmi meglio avvolgere dalle delicate melodie. Qualche intermezzo acustico ed un paio di cover, tra cui Little Boxes, storico brano scritto da Malvina Reynolds e reso famoso da Pete Seeger, fino ad arrivare all’unica canzone veramente rock del set, Sam, che Thony presenta ammettendo di aver scritto una “canzone stupida”. In questo caso la chitarra diventa elettrica, la batteria picchia forte, la voce esce con grinta. Dopo questo intermezzo si torna di nuovo a sognare con le ormai familiari atmosfere struggenti, arrivando alla chiusura della performance con l’intenso incedere strumentale di Blue Wolf e la malinconica Water.
Thony appare visibilmente soddisfatta per l’attenzione e la risposta emotiva che il pubblico le ha riservato, al punto da dichiarare che è un vero lusso, oggi, suonare nei teatri. Anche per me il bilancio è decisamente positivo: sicuramente un’esibizione convincente, che ravviva e colora di bellissime sfumature i brani del disco, già di per sé un lavoro di respiro internazionale, elegante e prezioso, tra i più riusciti nel panorama indie folk degli ultimi anni.
Sono le 23:30, gli artisti lasciano il palco, il teatro velocemente si svuota. Anche io lascio la mia comoda poltroncina rossa: mi aspetta di nuovo la notte milanese gelida e, forse, nebbiosa, ma porto con me una rassicurante consapevolezza: grazie alla musica, ancora una volta, son tornato a “nutrirmi” di emozioni e quindi di vita!
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L’essenza di questa interessante 3 giorni musicale mi è stata spiegata da Teodoro Roma, dell'Associazione culturale Golden Stage, che ha curato l'evento: "Trovandomi a passare davanti al Martinitt, (luogo semisconosciuto, restaurato da poco, già teatro dell’ex orfanotrofio omonimo) mi sono innamorato della suggestione dell'edificio che ho immaginato come location ideale per eventi live. Da qui l'idea di una rassegna musicale che, per motivi di budget, è stata ridotta quest'anno a 3 date consecutive, concepite come un vero festival. Vista la capienza limitata dei posti a sedere,la nostra ricerca si è indirizzata verso nomi emergenti, che avessero però un minimo comune denominatore: l’indubbia qualità del progetto musicale e la propensione dello stesso ad esprimersi in una dimensione teatrale. Per rendere il tutto più accattivante, la scelta è ricaduta sulla formula del double bill: due artisti, due band, ogni sera a dividersi il palco. Una soluzione che ha decisamente incontrato il favore del pubblico facendoci ben sperare nella possibilità, anche in un prossimo futuro, di presentare nuovamente un'analoga proposta”.
Chi scrive, comodamente seduto nella sua poltroncina rossa, il 30 gennaio si è goduto il terzo ed ultimo appuntamento, che vedeva protagonisti, rispettivamente, Dimartino e Thony. Eccovi, di seguito, il racconto di come ho vissuto la serata.
Poco dopo le 21 le luci si spengono, gli artisti raggiungono la loro postazione sul palco. Sulle note di Venga il tuo regno, un Antonio Di Martino insolitamente barbuto, dà il via alla serata. I suoni sono ben calibrati e i musicisti, abituati a suonare in club di piccole e medie dimensioni, quasi appaiono meravigliati di esibirsi in un palco che offre loro tutto quello spazio. Rispetto alle più recenti date milanesi a cui ho partecipato, nella scaletta noto che trova spazio qualche brano in più tratto dal primo album Cara maestra abbiamo perso. L’atmosfera è meno rock, quasi si tratti di una forma di rispetto per l’approccio elegante che il teatro suggerisce. Antonio Dimartino si alterna al basso elettrico, strumento che a lui piace moltissimo suonare, e alla chitarra acustica, che diventa protagonista nei momenti più raccolti (Maledetto autunno, Io non parlo mai, Ormai siamo troppo giovani – tutte dal fortunato disco del 2012 Sarebbe bello non lasciarsi mai….)
E’ una formazione essenziale la sua, ma con due grandi virtuosi che la impreziosiscono.
Angelo Trabace è spesso in evidenza alle tastiere. Penso in proposito a pezzi come La penultima cena, con una parte quasi ballabile (nel presentarla Antonio ci raccomanda di “muovere i culi”, anche se siamo seduti) e Cara maestra abbiamo perso, che ci viene proposta con un nuovo, bellissimo, arrangiamento “electro”. Giusto Correnti trasforma la batteria in un’autentica macchina del ritmo, davvero impressionante da osservare ed ascoltare nei momenti più tirati. La carica dei brani di Dimartino, forte e diretta, colpisce il pubblico entusiasmandolo. Nelle storie di questo giovane artista, raccontate come fossero dei “corti” di cinema, c’è un mondo che, partendo dalla Sicilia, per la sua attualità ed intimità, arriva a riscaldare i cuori anche in questa fredda città del nord. Il set musicale finirebbe con la splendida Non siamo gli alberi, ma il calore del pubblico lo convince a tornare sul palco per l’ultima e commovente Amore sociale.
Si conclude così la prima parte della serata che ci ha offerto tre musicisti in grado, per abilità tecnica e “cuore” di entrare in profonda sintonia con il pubblico in sala. Non a caso, mi hanno poi confessato che suonare in queste condizioni (silenzio e massima attenzione da parte dei presenti), anche per loro è stato particolarmente appagante ed emozionante.
La seconda parte dello spettacolo vede in scena Federica Victoria Caiozzo, in arte Thony, con l’inseparabile chitarra acustica. La guardo prendere postazione sul palco e, immediatamente, mi torna in mente la fragile ed intensa Antonia protagonista recente del film “Tutti i santi giorni”, di Paolo Virzì, alla quale Victoria ha prestato la figura con riconosciuta bravura. La giovane cantautrice di origini siculo-polacche riparte proprio da Milano con il suo tour invernale; da subito riesce a creare un’atmosfera piacevole, leggera ed intima, proponendo brani dal suo recente secondo disco Birds, parte dei quali inseriti anche nella colonna sonora del lungometraggio di Virzì.
Thony, con dolcezza, ci accompagna alla scoperta di un mondo delicato, denso di brani acustici, evocativi, trame sonore indie folk impreziosite dalla presenza di ottimi musicisti. Cesare Petulicchio (Bud Spencer Blues Explosion) alla batteria, Livia Ferri (anche lei songwriter con un recentissimo album all’attivo) alle chitarre acustiche, Matteo D’incà al basso e chitarra elettrica, Leonardo Milani (che ha già collaborato agli arrangiamenti del disco) al piano. In realtà, a seconda dei brani, gli strumenti sul palco si moltiplicano e le sensazioni che ne scaturiscono sono davvero speciali. La parte più consistente della scaletta è decisamente costituita da pezzi tratti da Birds: scorrono uno dopo l’altro Time Speaks, Promises, Flowers Blossom e Home, il cui testo, in origine molto triste, l’autrice ci rivela essere stato variato per l’inserimento nel film.
Voce eterea, arrangiamento essenziale piano e chitarra acustica, mentre ascolto “when we find our home again we are, we feel so young “ (quando troviamo di nuovo la via di casa siamo, ci sentiamo così giovani) non posso fare a meno di pensare che, per me, come sicuramente per molti altri, c’è qualcuno di importante che, per un motivo o per l’altro non ritroverà più la via di casa e, gli occhi, quasi quasi, diventano lucidi, così come, mi accorgo, succede anche alla ragazza che mi siede accanto.
Seguono poi Paper Cup, deliziosa con il suo inizio “ahahah”, che mi ritrovo a canticchiare scandendo il tempo con le mani, Dim Light, Quick Steps, tutte assaporate ad occhi socchiusi, per lasciarmi meglio avvolgere dalle delicate melodie. Qualche intermezzo acustico ed un paio di cover, tra cui Little Boxes, storico brano scritto da Malvina Reynolds e reso famoso da Pete Seeger, fino ad arrivare all’unica canzone veramente rock del set, Sam, che Thony presenta ammettendo di aver scritto una “canzone stupida”. In questo caso la chitarra diventa elettrica, la batteria picchia forte, la voce esce con grinta. Dopo questo intermezzo si torna di nuovo a sognare con le ormai familiari atmosfere struggenti, arrivando alla chiusura della performance con l’intenso incedere strumentale di Blue Wolf e la malinconica Water.
Thony appare visibilmente soddisfatta per l’attenzione e la risposta emotiva che il pubblico le ha riservato, al punto da dichiarare che è un vero lusso, oggi, suonare nei teatri. Anche per me il bilancio è decisamente positivo: sicuramente un’esibizione convincente, che ravviva e colora di bellissime sfumature i brani del disco, già di per sé un lavoro di respiro internazionale, elegante e prezioso, tra i più riusciti nel panorama indie folk degli ultimi anni.
Sono le 23:30, gli artisti lasciano il palco, il teatro velocemente si svuota. Anche io lascio la mia comoda poltroncina rossa: mi aspetta di nuovo la notte milanese gelida e, forse, nebbiosa, ma porto con me una rassicurante consapevolezza: grazie alla musica, ancora una volta, son tornato a “nutrirmi” di emozioni e quindi di vita!
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